Noi Vescovi del Concilio
Conversazione ai vescovi lombardi 1-6- luglio 1988
Carissimi, parlo a voi come uno che ha conseguito misericordia dal Signore (cf. 1 Cor 7, 25): è una esperienza toccante, in certi momenti commovente. Mi rivolgo a voi, tralasciando gli appellativi che legittimamente vi competono, perché prima di tutto vi voglio bene e vi considero miei amici. Questo non è solo frutto del mio modo di pensare, ma è una esigenza che nasce tanto dal Concilio come dal Vangelo.
Il Concilio al capitolo 3° della Costituzione sulla Chiesa ha una affermazione sorprendente a cui non si fa sufficiente riferimento: “Uno viene costituito membro del corpo episcopale in virtú della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio e con i membri” (LG 21). Le condizioni per cui uno è vescovo sono due: la prima è la consacrazione sacramentale e la seconda, a pari titolo, è la comunione col capo e con i membri del corpo episcopale. A questa seconda condizione non si dà la dovuta importanza, quasi non se ne ha coscienza: ognuno fa il vescovo per proprio conto, con la propria personalità, i propri punti di vista, le proprie iniziative, ma ignorando i suoi legami costitutivi con il capo e i membri del corpo a cui appartiene.
Eppure questa è una esigenza esplicita del Vangelo. Gesú sceglie i Dodici e li costituisce suoi apostoli, prega il Padre per loro e li chiama amici. La costituzione dei Dodici si può considerare un traguardo della vita pubblica di Gesú: perché vadano nel mondo a continuare la sua missione. “Gesú se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i discepoli e ne scelse dodici ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6, 12-13; Mc 3,13 ss; Mt 10,1 ss).
La costituzione dei ” Dodici ” è entrata cosí profondamente nella coscienza dei discepoli che, dopo che Giuda se n’è andato, decidono di sostituirlo: “Fratelli, era necessario che si adempisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo Giuda… bisogna dunque, tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesú ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato fra noi assunto al cielo, che divenga insieme a noi testimone della sua risurrezione” (At 1,16-22).
Gesú dice: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo piú servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma io vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. E aggiunge: “Voi non avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate f rutto e il vostro f rutto rimanga: perché tutto quello che chiederete al Padre nel nome mio, ve lo conceda. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato. Nessuno ha un amore piú grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,12-14-17).
Come si vede, l’amore vicendevole non è soltanto affettivo, ma secondo il comando del Signore, deve essere effettivo come il suo, che ha dato la sua vita per noi con la morte in croce. Quindi, secondo il Vangelo, non ha ragione di essere la distinzione tra l’amore affettivo ed effettivo dei membri del collegio episcopale.
Noi vescovi dobbiamo qualificarci per la misura dell’amore vicendevole: questo non è solo doveroso ma è costitutivo, anche se non è ancora entrato nella mentalità corrente. Scusate se vi propongo un esempio personale: nel mio seminario eravamo un gruppo di amici al punto da formare una cosa sola. Quando ci chiamavano in diocesi per predicare, era indifferente che ci andasse l’uno o l’altro. Insieme fissavamo i cosí detti “punti” e poi si partiva. Diventati vescovi, non abbiamo piú trovato mezz’ora per stare insieme, non tanto per scambiarci i “punti”, ma per comunicarci le nostre esperienze, le nostre difficoltà, la nostra croce e la nostra gioia.
Mi permetto di dire: gettiamo un seme, amiamoci tra di noi, non per essere di esempio o migliori tra i nostri confratelli italiani, ma perché questo seme dia i suoi frutti; è nella natura del seme dare frutti. Confidiamo!
La nostra costituzione in un unico corpo legato dall’amore vicendevole ha una estensione e una intrinseca analogia col corpo presbiterale. Una visione giuridica ha operato non solo una distinzione, ma una separazione tra noi e i presbiteri: noi di serie “A” e loro di serie “B”, fino a determinare una situazione di sofferenza e di frustrazione.
Da un punto di vista teologale le cose stanno ben diversamente: i vescovi e i presbiteri derivano da un unico e medesimo Spirito, il quale è la stessa e identica Persona; il “piú” e il “meno” sono nostre categorie, qui invece siamo nella profondità inesprimibile di un mistero. Certa è la funzione dei carismi: tutti destinati alla edificazione di una unica chiesa (cf 1 Cor 12, 4 ss).
Nel Concilio, a questo proposito, troviamo due affermazioni: la prima nella Costituzione sulla Liturgia (SC 74), la seconda nella Lumen Gentium (LG 355), le quali sostanzialmente affermano che il presbitero, nella comunità locale, rende presente e fa le veci del vescovo. Quando il presbitero parla è come se parlasse il vescovo, anzi, come se parlasse il Cristo Gesú: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato” (Lc 10, 16); quando il presbitero presiede l’eucaristia, in comunione con il vescovo, le parole sul pane e sul vino le pronuncia, secondo una secolare espressione della teologia, “in persona Christi”; la formula dell’assoluzione è la stessa sia che la pronunci il vescovo come quando la pronuncia il presbitero.
Perciò tutti siamo coinvolti in un unico mistero che ha come effetto ed esigenza l’amore vicendevole, il quale è effuso nei nostri cuori dallo Spirito che ci è stato dato (cf Rm 5, 5), sempre per 1 imposizione delle mani: è questa la grazia che dobbiamo risuscitare (cf 2 Tm 1, ó).
Noi Vescovi dobbiamo ammettere con chiarezza che da molte parti emerge l’esigenza, per ogni età, di trovare un sacerdote disponibile, santo non di una santità generica, in intima comunione con le divine Persone, contento di essere sacerdote e attento ai discorsi della gente: è gente che ha bisogno di parlare e non tanto di risolvere problemi morali, ma chiede di essere introdotta nella “conoscenza” del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, i soli veri protagonisti della salvezza.
Nella Chiesa si parla troppo facilmente di potere, ma questo va inteso secondo una lettura umile e attenta del Nuovo Testamento, il quale pone nella giusta luce e nel retto significato il potere nella Chiesa.
Tutto viene da Dio: “Chi può rimettere i peccati se non Dio?” (Mc 2, 7); tutto il potere è dato a Cristo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28,18); tutto il potere è conferito agli Undici: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Perciò il potere della Chiesa è quello annesso al ministero e appartiene a tutti i successori degli apostoli; mentre il successore di Pietro ha le sue prerogative uniche, il ministero è di tutto il corpo episcopale. Il sommo Pontefice è il fondamento su cui è fondata la Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18): la pietra però è Cristo (cf Ef 2, 20). Se non si ha una sufficiente avvertenza, una accentuazione unilaterale degli elementi visibili della Chiesa potrebbe far passare quasi sotto silenzio il Cristo, fondatore della Chiesa e unico salvatore di tutti e di tutto.
Il comandamento del Signore di amarci vicendevolmente riguarda tanto il corpo dei Dodici come il corpo episcopale a cui presiede il Papa. Quindi il rapporto che deve intercorrere tra i vescovi e il sommo Pontefice è prima di tutto quello dell’amore: come i vescovi si devono amare tra di loro, così devono amare Pietro. Il compito dato da Gesù a Pietro di confermare i suoi fratelli è particolarmente quello di aiutarli a volersi bene (cf Lc 22, 32). Una mentalità “occidentale” ha riferito questa raccomandazione di Gesù unicamente alla verità da garantire e lascia in ombra il comandamento del Signore. Ma la verità è Cristo in persona, il quale non ha bisogno di essere salvato. E’ lui che salva (cf Gv 14, 6).
Pietro e gli apostoli hanno ricevuto insieme il comando del Signore di amarsi come lui ci ha amato. Questo comandamento di essere una cosa sola nell’amore perché il mondo creda, passa interamente ai loro successori. Il successore di Pietro deve amare i propri fratelli nell’episcopato. Il Papa deve amare i vescovi; ma questi devono pensare a lui come al piú solitario tra i fratelli e amarlo adeguatamente.
E’ giusto che il sommo Pontefice abbia dei collaboratori per la sollecitudine di tutta la chiesa; ma è certo che la Curia Romana è una istituzione ecclesiale mentre i vescovi sono di istituzione divina.
Una indicazione illuminante è costituita dai Sinodi straordinari. Andrebbero però tenuti e progettati secondo la lettera e lo spirito del Nuovo Testamento, secondo le indicazioni dei Concili. E’ un auspicio.