E’ arrivato da Grazie con un piccolo corteo, a quaranta all’ ora, dopo essersi fermato alcuni minuti al Cimitero: una preghiera, una benedizione. E’ sceso poi in piazza Mantegna e, al cospetto della eterna « idea » di Leon Battista Alberti, le sue braccia si sono aperte in un gesto largo e cordiale di saluto convinto e commosso.
Mentre un picchetto gli rendeva l’onore delle armi, mentre le autorità gli erano presentate una ad una, gli occhi di tutti erano fissi su di lui, che era Vescovo, ma anche persona nuova, uomo da scoprire, da armonizzare e soprattutto da capire. Era stato preceduto da una fama di Vescovo “impegnato” e “impegnativo”. Lo si dipingeva come assolutamente moderno, assolutamente in linea col dettato del Concilio. Un Vescovo insomma che non cessa di essere uomo tra gli uomini, anche quando benedice, anche quando in capo calza la mitra e in mano stringe il pastorale, che sono i segni sensoriali della sua investitura.
Aveva fatto soprattutto colpo quel suo arrivo in incognito a Mantova. Era entrato in Seminario in nigris, senza cioè alcuna distinzione esteriore ne filetti viola, ne anello, ne croce pettorale. Solo al momento del Vangelo — dopo che come tutti i Vescovi aveva pronunciato la frase “La pace sia con voi” — si è rivelato: “Sono io. Voi siete i miei seminaristi”, aveva detto tra lo sbalordimento generale.
Aveva visitato poi la città e naturalmente l’Episcopio, la sua prossima casa. Aveva scelto come studio di lavoro una stanza umile e modesta. Aveva semplicemente rinunciato a tutti gli «stili» per seguire il «suo» stile. Coi sacerdoti mantovani andati a Roma per ossequiarlo (si trovava infatti in Vaticano come membro della Conferenza Episcopale che studia il nuovo equilibrio dei territori delle Diocesi) non aveva fatto mistero di possedere e di guidare un’automobile.
Era stato preceduto da tutto questo e anche da qualcosa in più, una specie di leggenda allo stato molecolare. Leggenda del resto, tutta permeata di un cordiale sottofondo di umanità e di spirito cristiano inteso nel senso più classico.
Lo guardavano quindi con curiosità moltiplicata e probabilmente lui lo sapeva.
Alto, dignitosissimo nell’incedere e nel gestire, Mons. Carlo Ferrari ha dimostrato di possedere, infatti, un’umanità dotata di ogni sfumatura. Una umanità e una sensibilità. Lo «aspettavano » al Vangelo (il primo discorso di un Vescovo è sempre molto importante) e anche questo sapeva. Le prime parole, le prime frasi, così, ‘sono uscite a fatica, quasi annegate dalla commozione. Poi il discorso si è fatto più incisivo, più caldo, fino a diventare bollente—per così dire—quando ha parlato dell’amore di Dio e quando ha porto il suo saluto a tutti coloro che gli sono stati e che gli sono vicini: un pensiero alla Diocesi di Monopoli e di Tortona, ai compaesani di Fresonara di Alessandria (è di quella terra) e a tutta la comunità diocesana di Mantova.
Alla fine, proprio quando mancavano pochi minuti prima di lasciare la Concattedrale, Mons. Ferrari ha benedetto i fedeli con la mano ornata dall’anello portato da Giuseppe Sarto Vescovo di Mantova. E lo ha detto. E ha detto: « Vi benedico con I’anello del Santo Pio Decimo ». Un gesto che ha come riallacciato la tradizione, se di tradizione, in senso assoluto o relativo, si può parlare.
Così Mantova ha conosciuto il suo sessantatreesimo Vescovo: molto semplicemente molto familiarmente, molto umanamente.
Cesare De Agostini
“La Gazzetta” di Mantova, 11 Dicembre 1967.