Le radici del Vescovo Carlo
Addio, Vescovo Carlo. Dopo tanti arrivederci, questo è un addio. O un diverso, arrivederci!
In queste ore di intensa seppur rasserenata mestizia, alla memoria di chi scrive ripassano nitidi e struggenti fotogrammi di un’intera vita. A cominciare dai lontani anni del Seminario minore sulla collina di Stazzano.
Vi eravamo arrivati ragazzini, quasi tutti da oscuri paesi di campagna, con idee quanto mai vaghe e perfino caricaturali su cosa fosse un prete e su cosa comportasse diventare preti. Ad accoglierci erano un luogo e abitudini di vita talmente spartane e severe anche rispetto agli standard di quegli anni che quasi viene da chiedersi come abbiamo potuto superare, e in letizia, le tante non facili prove che comportavano.
Ma ad accoglierci c’era anche lui, il Padre spirituale don Carlo Ferrari, che nel contesto di quei rigori era una sorridente promessa di pace, di libertà espressiva, di fiducioso incoraggiamento. Così abbiamo potuto attraversare quegli anni in compagnia, tra l’altro, di classiche calamità come la guerra, la fame, il freddo, il terribile freddo di interi inverni senza riscaldamento. Per riscaldarci, non c’erano, alla lettera, che le corse in cortile e il grande focolare di un sogno a cui sempre guardare, da cui spremere conforti quotidiani di gioia e fiducia. Meno intimo e caldo, quel focolare, dell’altro di casa nostra (tante volte rimpianto senza poterlo dire) ma più grandioso e fascinoso, quasi un falò nella notte le cui fiamme salivano alte alte fino a confondersi con il cielo pieno di stelle…
Voglio dire, voglio testimoniare che ad alimentare quel fuoco c’era ogni giorno la parola e la presenza, vicina attenta premurosa, mai invadente di don Carlo Ferrari. Non è solo un’immagine letteraria. E’ che, a distanza di tanti anni, qualcuno di noi può ripetere a se stesso senza mentire “non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre lui ci parlava?”. Anche altri ci parlavano, in quegli anni, ma il cuore restava freddo, arido e s’intristiva. Con lui, nel segno di lui che ci veniva dato, – meglio lo avremmo colto qualche anno più tardi – erano dunque la benignitas e l’humanitas del Salvatore a manifestarsi per noi.
Non molto, nel piccolo Seminario sulla collina, era o ci sembrava ispirato a quei valori, certo gentili e cristiani, che incontravamo, le prime volte, nei suoni delle parole latine, quelle dei libri e dei maestri di scuola o quelle cantanti nel “gregoriano delle novene”. Ma lui sì, le sue parole, i suoi silenzi, le sue battute, i suoi gesti, tutta la sua persona, di quella humanitas e benignitas erano così ricchi e colmi ed effusivi che chiunque lassù ne potè godere come di un dono e di una grazia, cioè di cose che cambiavano il volto dei giorni e rischiaravano i nostri volti e ci davano gioia. Oggi forse, prosaicamente, si parlerebbe di feeling, ma senza cogliere la bellezza e ricchezza spirituale di un discepolato che cresceva negli anni, e ci cresceva, ci educava, ci familiarizzava con il “piano di Dio” e il suo Mistero.
La “vocazione” era sì sovrumana ma non disumana ci chiedeva di andare al di là di noi stessi, non contro noi stessi, per fedeltà a un disegno che era scritto in noi, non solo sopra di noi.
Il mio caso personale mi sembra ancora oggi emblematico di quella straordinaria esperienza. Al punto che quando, a sedici anni, perdetti il mio padre secondo la carne, io seppi senza ombra di dubbio che lui, don Ferrari, era il padre – non solo secondo lo spirito – che il Signore mi dava. E così è stato, per lunghissimi anni.
L’incanto di quei primi anni (il falò sotto la volta stellata) divenne in seguito, al Seminario maggiore, più matura e appassionante esperienza di nuovi orizzonti: quelli che ci aprivano la scoperta della Parola di Dio nella Bibbia, della liturgia come mistero, della nuova catechesi da rimodellare sulla Parola, della spiritualità cristiana di figure come Marmion e Pollien. Era, con le formule d’uso, la scoperta del Cristo ideale del monaco del prete del credente; ideale dell’uomo! E sempre, al Padre spirituale, più tardi al “professore” (parola che lo ha sempre fatto sorridere) don Carlo eravamo debitori di queste scoperte, come pure del gusto di saperne di più, di immedesimarci di più, di orientarci da soli nel mare magnum della conoscenza e della vita che via via si spalancavano.
Non è il caso, per ora, di dilungarsi oltre a rievocare che cosa tutto questo abbia significato poi, nel ministero del Vescovo Carlo a Monopoli e a Mantova. E forse altri lo faranno. Per noi, le radici della “pianta di Dio” sono là, sulla collina, in quel terreno vergine e sassoso dove don Carlo Ferrari gettava il seme, spingeva l’aratro e irrigava, ben sapendo che un Altro avrebbe “fatto crescere”, ma come se, per altro verso, tutto dipendesse da lui, da quella sua dedizione così semplice, vera e senza fronzoli, in uno scambio così umano e benevolo, come se noi fossimo davvero i suoi figli ed egli il padre, di ciascuno e di tutti.
Don Benito Regis
“La Cittadella”, Dicembre 1992