Presentazione
E’ perfettamente inutile scusarsi quando, per qualsiasi ragione, si accetta di mettere il proprio nome sulla copertina di uno stampato.
Le pagine che seguono sono il testo registrato dei temi di meditazione intorno a cui mi sono intrattenuto con i miei Seminaristi di Teologia: hanno subito qualche ritocco, quel tanto che le rendesse meno oscure.
Non si tratta ditemi su cui si è discusso; anzi i giovani hanno chiesto di poter meditare e basta: io ho svolto i temi e ciascuno, per proprio conto, li ha fissati nel raccoglimento e nella preghiera.
Non pretendo affermare di avere spezzato loro il pane più appetibile; sta il fatto che di frammenti sopra la tavola non è rimasta traccia e che nessuno ha sofferto sintomi di cibo troppo pesante.
Può essere un indice non trascurabile per capire quale genere di pane cerchino questi nostri giovani.Il fatto più saliente è un altro.
Questi giovani, di loro iniziativa, hanno insistito perché il Vescovo trascorresse con loro i giorni del ritiro e dettasse lui le meditazioni; nonostante conoscessero per esperienza a quali tentazioni ceda il Vescovo quando parla: naviga nel mare dei misteri e non ha mai finito.
Se questo, a prima vista, è già un motivo che può fare riflettere, guardando le cose più da vicino e soprattutto dopo averne fatto l’esperienza (e per chi scrive non è la prima), c’è da rimanere colpiti seriamente per quello che sta accadendo, ai giorni nostri, nella vita della chiesa.
Si tocca con mano che esiste un’ « onda », scelta da Gesù Cristo, sulla quale lo Spirito Santo « trasmette » a ritmo ininterrotto.
La lunghezza e la frequenza di questa onda corrispondono agli « uffici » di cui è dotato il Vescovo nella chiesa.
Se l’antichissimo « nihil sine Episcopo » era inculcato per la fondazione della chiesa, oggi èinvocato per la sua esistenza: dal piano istituzionale a quelto esistenziale.
Ciò che il Concilio insegna in un contesto piuttosto limitato: dal Vescovo « dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo » (S.C. 41), i membri della chiesa lo sentono m un senso molto più ampio e profondo.
Tutti, nella chiesa, reclamano la presenza del Vescovo:dai laici ai sacerdoti ma in particolare i giovani che si preparano a scegliere di diventare,« in persona Christi », i servitori dei loro fratellL
Si cerca la parola del Vescovo, si preferisce l’eucaristia presieduta da lui, ma soprattutto si vuole comunicare, stare insieme a pregare con lui.
Si ha in qualche modo coscienza che il compito del Vescovo di predicare eccelle (L.G. 25) sugli altri, che quando egli presiede la celebrazione eucaristica « c’è la piena manifestazione dèlla chiesa » (S.C. 41), ma poi si pretende che svolga il suo ruolo di « visibile principio e fondamento di unità » (L.G. 23) fra i membri di ogni comunità in una dimensione umana e cristiana.
La dimensione umana è quella di una certa convivenza la quale dia luogo a un incontro vero, p’rsonale, disteso: di modo che « come buoni paMori conoscono le loro pecorelle e sono da esse conosciuti » (Ch. D. 16); quella cristiana è il bisogno sentito di pregare col Vescovo.
Quest’ultima richiesta è impressionante: rivela una esigenza talmente radicata nei motivi della /ede che non la si può eludere, a meno di non limitare il Vangelo.
Forse si può pensare che, per quella tale trasmissione dello Spirito Santo, ci sia una reciprocità tra la decisione degli apostoli di dedicarsi all’orazione e al ministero della parola (cf At 6,4) e la esigenza dei membri della comunità di pregare con il loro Vescovo.
Comunque pare fuori dubbio che, se c’è un atto che caratterizza l’esistenza cristiana, questo è la preghiera fatta nel nome di Gesù (cf Gv 16,23), nella perseveranza e insieme (cf ~ 1,14; 2,42; Mt 18,20); quanto sia conveniente che tra coloro che stanno insieme a pregare sia presente il Vescovo ognuno lo può giudicare.
Quando ho accettato di stare con i miei seminaristi per pregare insieme a loro e per esercitare tra essi il ministero della parola, non pensavo certo di tirare delle conclusioni che sembrano molto più larghe delle premesse: dire che cosa dovrebbe fare un Vescovo e in particolare come la chiesa a cui è preposto deve, per la natura delle cose, avere una dimensione personale.
Spero che chi è interessato e a cui spetta mi vorrà capire rettamente: è una voce tenue di uno come gli altri il quale è colpito da ciò che accade nella chiesa.
Quei giorni del ritiro, i miei giovani ed io eravamo molto sicuri di trovarci nel cuore della vitalità della chiesa di oggi.
Le parole, così come escono dalla tipografia, mi fanno ora la impressione di poco più che cenere, residuo di un fuoco che ha prodotto calore di vita.
Se qualcuno, smuovendo la cenere, ci trovasse ancora qualche carbone acceso, potrà a sua volta suscitare il fuoco che sarà alimentato dallo Spirito che soffia nella chiesa di Cristo.
Mantova, S. Bartolomeo Ap. 1970
C.F
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Prima meditazione
Testimoni dell’ incontro con Dio
L’avventura del deserto
Né io né voi abbiamo stabilito di trovarci nella abbazia della Madonna della Castagna il giorno 3 novembre 1969. E’ una decisione che abbiamo preso anche noi, ma, se crediamo che il Signore è il Signore della storia, dobbiamo ammettere che questo episodio della nostra esistenza è nelle sue mani; è un momento della sua grazia; è un istante che ci ha preparato lui, corrispondente alla sua condotta di condurre « i suoi », quelli a cui pensa di affidare un compito nell’opera della salvezza, in disparte perché stando con lui lo conoscano e diventino poi i testimoni di colui che hanno incontrato.
Cerchiamo di adattarci, piano piano ma con impegno, a questa condotta di Dio così evidente durante tutta la storia della salvezza e che quindi è vera e reale anche oggi per ognuno di noi.
Iddio, quando vuole conferire un incarico a una persona, la fa partire, la fa andare lontano per metterla in condizione di compiere un distacco dal proprio mondo per entrare in un’altra terra dove egli manifesterà sempre più chiaramente il suo disegno. Pensiamo alla storia del padre dei credenti, ad Abramo che parte dal suo paese e cammina, non sappiamo per quanto tempo, ma certamente ha compiuto centinaia di chilometri, per andare verso la terra della promessa.
Pensiamo alla condotta di Dio quando decide di costituirsi un popolo suo, di avere quindi un popolo incaricato ad essere strumento della sua salvezza in mezzo a tutte le nazioni: lo fa camminare misteriosamente nel deserto per anni e anni, nella solitudine più assoluta dove tutto ciò che accade allarga e intensifica l’esperienza della presenza di Dio e delle sue azioni meravigliose, di modo che Israele del deserto sarà il testimonio di Dio per tutte le generazioni.
Non è necessario far passare dinanzi a noi tutte le figure e i personaggi che sono legati alla storia della salvezza per riscontrare che la condotta di Dio non cambia mai: si va sempre a finire nella solitudine, nel deserto, perché sia facilitato l’incontro con lui.
Gesù continua la condotta di Dio nella sua persona e in particolare quando dà inizio al compimento dell’opera del Padre: è condotto dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti. Conosciamo questo episodio situato all’inizio della vita pubblica di Gesù. Sappiamo che Gesù nel deserto ha digiunato ed ha pregato; è stato col Padre: lui che era sempre col Padre, è stato più intensamente intento con tutto se stesso alla presenza del Padre.
Si pensa che Gesù abbia compiuto certi gesti perché fossero esemplari per noi. Più che all’esemplarità dei gesti di Gesù dobbiamo pensare al loro mistero: Dio manifesta la sua condotta prima di indicarne una per noi. Gesù ha compiuto questi gesti nella sua vita perché entravano nel piano di Dio, perché sarebbero stati la sorgente della forza con cui anche noi avremmo potuto comportarci come lui.
Quindi possiamo pensare che era necessaria questa pausa della vita di Gesù per intrattenersi unicamente col Padre. Pause più brevi relativamente a questa, Gesù le ha sempre interposte nella sua vita pubblica, nel suo ministero. Si ritirava in disparte, lontano dalle folle, qualche volta anche lontano dai discepoli, nel cuore della notte e si intratteneva in preghiera con il Padre. 2
Gesù ha educato gli apostoli a questa condotta di Dio: li chiamava da parte, li portava nel deserto. Il deserto non era mai lontano, bastava uscire dai margini della strada. Nel deserto Gesù si intrattiene con i suoi e dice in parole più chiare, più semplici, alla loro portata, quello che ha detto alle folle, dice quello che alle folle non ha detto e alla fine annunzia che verrà un Altro che li introdurrà nella comprensione di tutto quello che egli ha detto e che per ora non capiscono: «ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa, e vi farà ricordare tutto quello che vi ho detto » 3
Noi viviamo in un tempo in cui lo Spirito Santo è venuto ed è stato dato; è necessaria una attenzione più diligente alla abituale condotta di Dio che parla ai singoli; egli parla all’esterno attraverso la chiesa, il magistero, i gesti liturgici, gli avvenimenti della storia, ma chiarisce la sua parola, la fa intendere all’interno. Parla, semmai, attraverso la parola, i gesti, la storia, gli avvenimenti, ma la voce è quella intima, è quella dello Spirito, è quella che parla « di dentro », non al nostro orecchio ma al nostro cuore e può parlare solo nella profondità e nella misura della profondità del nostro silenzio e del nostro raccoglimento.
entriamo nel deserto
Adoriamo la condotta di Dio e poi cerchiamo di lasciarci condurre da lui. Mettiamo tutta la nostra persona a disposizione di Dio, perché ci faccia intendere ciò che egli vuole farci intendere; prima di tutto il significato della sua condotta e quindi il significato del raccoglimento, delle pause di silenzio, delle pause di preghiera più impegnata, più profonda, più intensa che deve segnare il ritmo della nostra vita: mettiamoci nella disposizione di fare tutto ciò che egli ci chiederà.
Questi giorni sono uno di quei momenti di pausa. Non saranno tanto importanti le cose che ascolteremo quanto è importante l’impegno di stare con Dio, di camminare alla sua presenza, di intrattenerci con lui, di metterci ai suoi piedi. in piena disponibilità a dire: « loquere Domine quia audit servus tuus »; Signore parla, io ti sto ad ascoltare. 4
L’abbazia presenta la opportunità di una esperienza liturgica comunitaria, ma presenta in particolare la possibilità del raccoglimento. L’abbazia benedettina, anche nella sua disposizione architettonica è concepita in modo da indurre al raccoglimento.
Preoccupiamoci soprattutto di questo elemento, perché le liturgie possiamo averle anche noi, la vita comunitaria possiamo realizzarla anche noi, ma il silenzio per noi è più difficile da attuare. Nella abbazia si pratica abitualmente; noi dobbiamo per Io meno convincerci che è indispensabile realizzarlo in determinati momenti della nostra giornata, della nostra settimana, mensilmente, annualmente secondo un ritmo che deve rendere possibile una autentica vita spirituale.
le scomodità del deserto
Non nascondiamo le difficoltà.Il raccoglimento inteso nel senso di costringere tutto noi stessi alla presenza di Dio per ascoltarlo è una impresa difficile. Noi comunichiamo immediatamente con le realtà che ci circondano attraverso le nostre facoltà sensibili. Con le realtà spirituali interiori, religiose, con Dio, con la rivelazione di Dio, che è Gesù Cristo in persona, non comunichiamo con i nostri sensi, ma con il profondo di noi stessi. Possiamo arrivare anche a una certa esperienza sensibile della presenza di Dio, ma per il dono della sua grazia che avrà operato in un modo talmente forte in noi, da sottomettere tutto noi stessi, quindi anche la nostra sensibilità e i nostri sensi al suo dominio, al dominio della sua azione e della sua presenza.
Senza pensare a fatti straordinari o mistici, si può arrivare ad una esperienza della vita di grazia, a una esperienza della presenza di Dio che ha la sua ridondanza anche nella nostra parte sensibile, ma non si attuerà mai al di fuori del contatto interiore con Dio.
Le difficoltà vengono dall’ambiente: l’ambiente del mondo e del mondo di oggi che è più chiassoso e pieno di un frastuono da cui non ci si può difendere. I così detti mezzi di comunicazione sociale si prestano incessantemente a distoglierci, a portarci fuori.
Le difficoltà vengono dallo stesso ministero: le conoscete già per una certa esperienza, ma le avvertirete di più quando sarete nel pieno del vostro lavoro. I richiami continui che ci vengono dai nostri fratelli, il senso di responsabilità per gli altri, i problemi di qualsiasi ordine da risolvere, la molteplicità delle opere apostoliche creano difficoltà veramente serie perché noi possiamo mantenerci in un contatto abituale con Dio.
I’ incontro
Eppure il silenzio, il raccoglimento, il contatto con Dio nella preghiera, l’esperienza della presenza di Dio sono indispensabili per la nostra vita cristiana e per la nostra azione apostolica.
Si possono dare del sacerdote molte definizioni, ma al di sopra di tutto resta il fatto che non possiamo esimerci dall’essere uomini di Dio. Se siamo uomini di Dio dobbiamo conoscerlo questo Dio come si conoscono le persone che contano nella vita; non è sufficiente una conoscenza speculativa; si può conoscere di una conoscenza speculativa Dio ed essere miscredenti; si possono avere tante cognizioni su Dio, si può anche essere teologi senza credere in Dio; una conoscenza che decida della propria vita e di quella degli altri, può essere solo quella di un rapporto profondo, prolungato, incidente.
Da come è configurato il sacerdozio oggi nella chiesa, e dovrà esserlo sempre più perfettamente e sempre più seriamente, è chiaro che abbiamo bisogno di una esperienza personale della presenza di Dio, per autenticare nella nostra esistenza quotidiana la consacrazione sacramentale.
esperienza dell’ incontro
Noi abbiamo bisogno di una esperienza di Dio, della sua presenza, del suo amore per noi. Abbiamo bisogno della esperienza di tutto ciò che Dio è per noi personalmente, perché la nostra vita possa diventare possibile, altrimenti rimane sospesa nel vuoto. Tutti i sostegni che possiamo andare a cercare intorno anche quando sono buoni, anche quando sono raccomandati, come l’amicizia tra di noi, non tengono, se non c’è questo primo e fondamentale sostegno della sicurezza sperimentata dell’amore di Dio, della sicurezza di cui si hanno le prove non soltanto speculative, ma vitali, per una comunione di vita che si è stabilita tra noi e Dio nel suo Cristo sotto l’azione dello Spirito.
Altrimenti, ripeto, c’è il vuoto nella nostra persona e allora si reclamano tante soluzioni di altro genere. Questa è la soluzione che Gesù ha proposto ai suoi apostoli: « voi siete miei amici…, non vi chiamo più servi ma amici perché tutto quello che ho udito dal Padre mio ve l’ ho comunicato ».5 In altre parole: la esperienza che io ho della conoscenza del Padre (conoscenza in senso biblico), la comunico a voi che siete gli amici. Gli amici non si conoscono per lettera ma per contatto, per convivenza, per una messa insieme dei propri pensieri, dei propri sentimenti, dei propri interessi.
C’è un altro motivo. Noi dobbiamo portare ai nostri fratelli la testimonianza di ciò che annunziamo. Quello che proponiamo agli altri, quello che indichiamo agli altri, abbiamo diritto di proporlo nella misura in cui lo viviamo, o per lo meno, ci sforziamo di viverlo con molta umiltà e con uno sforzo leale e costante. Saremmo dei disonesti se proponessimo agli altri ciò che non viviamo noi.
Il monastero può suggerire pensieri curiosi. Noi in quanto sacerdoti siamo i perfezionatori della stessa vita religiosa. Le religiose non sono preti, anche se distribuiscono la comunione e fanno il catechismo e i religiosi non sono tali perché sono preti. E’ avvenuto nella storia che si sono assunte forme di vita religiosa per compiere una supplenza alle deficienze del ministero, ma non è il sacerdozio che costituisce i religiosi. La vita religiosa dovrebbe essere il frutto più maturo del ministero del sacerdote. Come possiamo essere i perfezionatori della vita cristiana a tutti i livelli, se non possediamo la perfezione della vita cristiana che è l’unione con Dio e l’esperienza dell’unione con Dio?
Quindi: portare nel mondo ai nostri fratelli una esperienza che è tipicamente nostra. Il mondo oggi vive di esperienze, crede alle esperienze e vuole fare esperienze. Anche i valori religiosi vanno tradotti e proposti come esperienze. L’esperienza più autentica della vita cristiana è quella dei discepoli di nostro Signore Gesù Cristo, quella degli Apostoli: è la nostra.
Sapete come è vivo nei nostri ambienti ecclesiastici il desiderio di fare esperienze nei vari campi della attività umana. Non condanniamo a priori quelli che vogliono fare queste esperienze. Può darsi che queste siano necessarie in certi ambienti, ma lo sono come vie per capire gli altri più che come testimonianze.
Tutti i nostri fratelli hanno già per proprio conto le loro esperienze in questi campi. E’ delle nostre esperienze che hanno bisogno per credere, quelle che essi trovano difficoltà a fare nel loro stato di vita.
Allora, se prima di tutto dobbiamo dare ai nostri fratelli una testimonianza di vita religiosa nel senso di rapporto intenso con Dio, abbiamo bisogno di fare questa esperienza per poterla comunicare. Questo ci chiedono e non altro: come è l’uomo di Dio, che cos’è un rapporto personale con Dio, che cos’è la esperienza di Dio, quale valore esistenziale essa ha.
Ci possono chiedere di provare come è la loro vita, ma per essere in grado di capirli, per assumere nei loro confronti atteggiamenti più comprensivi.
Ciò che di specifico chiedono a noi è altro: l’abbiamo capito; non deludiamoli.
1) cf Mt 1,13.
2) cf Lc 5,16; 6,12; 9,18; Mt 14,32; ecc.
3) Gv 14,26.
4)1 Sam 3,9.
5) Gv 15,1~15.
Seconda meditazione
Testimoni del tremendo mistero di vivere la vita di Dio
Il silenzio, il raccoglimento che sono evocati dall’avvenimento storico e dalla figura biblica del deserto non sono un fine. Il deserto non è un luogo di permanenza ma di passaggio. Il raccoglimento, il deserto, il silenzio servono per incontrarsi con Uno che è Dio, per scoprirlo, raggiungerlo, stabilire un rapporto approfondito e consolidarlo, perché diventi un rapporto di vita che si prolunghi in tutte le espressioni della nostra esistenza.
il senso dell’ incontro
Vediamo in questa meditazione, per accenni, in che cosa consiste questo incontro, questa esperienza di Dio.
Rifacciamoci alle parole di Gesù, a molte affermazioni che possiamo trovare nel Vangelo e particolarmente nei capitoli 15, 16, 17 di San Giovanni.
« Io sono la vera vite, il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo pota, perché frutti di più. Già voi siete puri in virtù della parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi »1. Ecco l’incontro con Dio, il rapporto con Dio, l’estensione di questo rapporto.
« Come il tralcio non può da sè portare frutto, se non rimane unito alla vite, così nemmeno voi se non rimanete in me » 2 C’è un rapporto vitale che comporta quindi elementi di vita. E’ una vita che si attinge. Non sono soltanto due persone che stanno di fronte: sono due persone che comunicano tra di loro. Cristo è la sorgente; noi siamo la derivazione di questa sorgente.
« Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto » 3 il frutto è la maturazione della linfa che il tralcio attinge dal ceppo.
« Perché senza di me non potete far niente ». 4 C’è senz’altro una analogia tra la figura (vite) e la realtà (vita). E’ necessario che Cristo sia in noi, perché noi possiamo essere e fare qualche cosa.
« Se uno non rimane in me, è gettato via, come un sarmento, e si secca, poi viene raccolto e gettato nel fuoco a bruciare ». 5
Gesù prevede il tempo in cui non sarà più con i suoi discepoli: « ma quando sarà venuto il Consolatore che io manderò da presso il Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza » 6 Renderà testimonianza della presenza e della azione di Gesù, Via, Verità e Vita. E non sarà una testimonianza esteriore ma interiore: la coscienza di comunicare alla vita di un Altro.
« E voi pure mi renderete testimonianza perché siete stati con me fin dall’inizio ». 7 Ci chiede una testimonianza dello stesso genere: una testimonianza che è fatta della nostra stessa esistenza. Il riferimento è alla persona di Cristo, col quale comunichiamo la vita nuova.
« Quando sarà venuto lui, lo Spirito di Verità, egli vi guiderà verso tutta la verità, perché non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto quello che ascolta e vi farà conoscere l’avvenire » 8
ciò che ripete Io Spinto
Che cosa ripeterà lo Spirito Santo se non ciò che ha già detto Gesù? In particolare dirà: « voi sarete miei amici se farete quello che vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padre. Vi ho chiamato amici perché vi ho fatto conoscere tutto quello che io ho udito dal Padre mio ». 9 Questo comunicare fra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e i suoi amici non è semplice conoscenza ma è partecipazione ad una vita: conoscere il Padre, conoscere Gesù Cristo è la vita eterna.10
« Non siete voi che avete eletto me, ma sono io che ho eletto voi ».11L’iniziativa di questa conoscenza, di questa comunione di vita, di questa esperienza di esistenza nuova, viene da Dio, viene da nostro Signore Gesù Cristo.
« E vi ho posto perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia duraturo; affinché qualunque cosa voi chiediate al Padre mio, egli ve la conceda. Questo vi comando: di amarvi scambievolmente » 12
« Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi » 13 « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate come io vi ho amati » 14 C’è l’origine, la derivazione, la propagazione, l’estensione di un unico fatto: l’amore di Dio che si diffonde e al quale noi siamo chiamati a partecipare.
« Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato nel mondo loro. E per loro io santifico me stesso, affinché anche loro siano santificati per la verità » 15 : sempre questa relazione tra il Padre e il Figlio, tra Gesù e i suoi.
« Non soltanto per questi prego, ma prego anche per quelli che crederanno in me, per la loro parola, affinché siano tutti una cosa sola, come tu sei in me o Padre, e io in te, affinché anche loro siano una cosa sola in noi » 16 Capite:il Padre è nel Cristo, Cristo è nel Padre, noi siamo in loro ed essi sono in noi! Questa è la meta della vita cristiana, della vita spirituale. Qui è impegnata la nostra esperienza, la nostra specializzazione. Questo è il valore che dobbiamo portare nel mondo. Questa è la testimonianza che dobbiamo rendere ai fratelli: essere coloro che hanno visto e che narrano agli altri ciò che hanno partecipato e vissuto.
in comunione di vita
« Affinché siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, e io in te, affinché anche loro siano una cosa sola in noi, (e non soltanto tra di noi!) affinché il mondo creda che tu mi hai mandato » 17: perché noi siamo i testimoni di questa esperienza.
« E la gloria che tu mi desti io l’ho data a loro » 18 La gloria di Dio è la manifestazione della sua presenza, è la manifestazione della sua azione meravigliosa in mezzo a noi. Gesù è stato la presenza meravigliosa di Dio in mezzo agli uomini e noi siamo chiamati a « glorificare » il nostro Padre, in quanto siamo una cosa sola tra di noi, come lo sono il Padre e il Figlio; perché da noi traspare che il Padre è in Gesù e Gesù in noi.
« Affinché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me » 19: poiché noi crediamo all’amore, portiamo la testimonianza di questo amore. Altrove San Giovanni dice: « noi abbiamo creduto all’amore » 20 Noi abbiamo creduto all’Amore. Noi dobbiamo essere nella condizione di proclamare davanti ai nostri fratelli questa esperienza di amore unico, infinitamente superiore a qualsiasi amore ci possa essere nel mondo, anche al più ordinato, anche al più santo.
« Padre, quelli che tu mi hai dato, io voglio che dove sono io, ci siano con me anche loro, affinché vedano la gloria mia, quelli che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima ancora della creazione del mondo ». 21 La gloria di Gesù è avere in se stesso tutta la grandezza, tutta la magnificenza e tutto l’amore del Padre.
« Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno creduto che tu mi hai mandato. Ed io ho reso loro noto il tuo nome » 22 Gesù Cristo, nell’azione dello Spirito Santo, in questi momenti privilegiati della nostra vita, nei momenti della preghiera, ci rende noto il nome del Padre, tutto ciò che è il Padre.
« E lo renderò noto ancora affinché l’amore col quale tu hai amato me – è quindi un avvenimento, un fatto interiore tra il Padre e Gesù Cristo – sia in loro e io in loro » 23 Gesù Cristo si identifica con l’amore del Padre e vuole essere in noi.
Ci accorgiamo di essere davanti ad un mistero stupendo, profondissimo, ancora lontano – e sarà sempre lontano – dalla nostra esperienza. Ma è precisamente a questo avvenimento, a questa manifestazione di Dio in Gesù Cristo, a questa comunione di vita con Dio in Gesù Cristo e nello Spirito, che noi dobbiamo tendere e che, per quanto possibile, dobbiamo realizzare nella nostra persona.
L’intimità con Dio di tutto il nostro essere ha inizio nel profondo della nostra persona, alle radici della nostra vita spirituale. Ma la nostra vita spirituale è la nostra vita, è la vita della nostra persona. Se questa intimità con Dio è un fatto reale e concreto, deve avere le sue risonanze in tutto il nostro essere, anche nel nostro essere sensibile. Iddio è entrato nel vivo della esperienza sensibile dei rapporti tra le persone umane nel mistero della Incarnazione e noi siamo chiamati ad esprimere questo rapporto con lui che deve essere altrettanto personale, altrettanto umano, altrettanto radicale da prendere tutta la nostra persona e tutta la nostra esistenza.
Le due grandi figure di cui si servono i testi della Rivelazione per illustrare il mistero della nostra partecipazione alla vita divina sono il banchetto e le nozze.
commensali del banchetto
Il tema del banchetto nasce come celebrazione di un avvenimento nazionale che riguarda il popolo ebraico, diventa poi una celebrazione liturgia, rituale, che assume sempre più il significato religioso della presenza gioiosa di Dio in mezzo al suo popolo, il quale è in festa perché il Dio di Israele è il Dio in mezzo al suo popolo, è il Dio che compie meraviglie per il suo popolo; è il Dio che prepara i doni di cui quelli materiali non sono che figura. I richiami dei profeti scuotono il popolo di Israele perché non si attardi ai riti, al ritualismo, ma scopra il senso profondo dei segni, li trasferisca nella propria esistenza e li faccia diventare operanti nella propria vita.
Il banchetto diventa un fatto comune nella esistenza di Gesù durante la vita pubblica, al punto di ricevere accuse assai pesanti, come oggi si dice: mangia coi peccatori e coi pubblicani. 24
Gesù lascia il memoriale di tutto il mistero della sua presenza in mezzo agli uomini (il mistero del suo passaggio nel mondo attraverso il sacrificio della croce e nella potenza della risurrezione) nel banchetto della Nuova Alleanza, dove si fa l’esperienza di una comunione quanto mai vitale con lui, la quale comporta un impegno di comunione con tutti.
Nel banchetto escatologico, infine, dove – in che modo e in che senso non sappiamo – entriamo nel mistero oscuro e nello splendore ineffabile della partecipazione definitiva della vita di Dio.
Non saranno i beni di Dio; Dio stesso sarà il Bene a cui parteciperemo nella vita eterna. Qui nella vita presente, ci sono i segni, le anticipazioni, gli inizi. Noi personalmente abbiamo il compito di annunciare i beni futuri con la testimonianza della nostra esistenza, di renderli in certo qual modo presenti, efficacemente operanti e attuali nella nostra vita e nel nostro ministero.
rapporti nuziali
La figura biblica delle nozze. I rapporti di Dio con il suo popolo sono espressi attraverso la figura dell’amore nuziale, esperienza unica di conoscenza tra due persone le quali comunicano con tutto se stessi, si accolgono e si donano totalmente per fare davvero una cosa sola. Questa esperienza umana è assunta da Dio per esprimere che cosa vuole essere e come deve essere il suo rapporto con il suo popolo.
In questo senso si deve interpretare il “Cantico dei cantici”; Osea al capitolo 20 dice molte cose.
La divinità in Gesù Cristo si unisce alla umanità in una espressione nuziale nel mistero della Incarnazione, al punto di diventare unità di persona e non solo unità di vita. Questo eccede ogni esperienza; questo è al di là di ogni capacità di comprendere, di pensare, di immaginare.
Gesù Cristo si definisce Sposo della sua chiesa, perché dà tutto se stesso, è tutto per la chiesa; essa è la Sposa senza macchia, rivestita degli ornamenti più preziosi e delle vesti più splendide, perché vive una vita di intimità e di amore con il suo Sposo. 25
Queste sono realtà bibliche, sono realtà della nostra Rivelazione, della nostra fede, del nostro cristianesimo, sono realtà che coinvolgono tutti i battezzati, ma in particolare coloro che hanno nei confronti di tutti i battezzati l’impegno di annunziare queste realtà.
Cristo Sposo e la chiesa Sposa non devono suscitare una certa soggezione di contaminazione mistica. Questo tema delle nozze è evidentemente fuori da qualsiasi balordo sensualismo, ma impegna anche tutta la nostra sensibilità. Se la nostra sensibilità non ha un appoggio, non ha un suo oggetto, di chi è? E quando noi non siamo padroni della nostra sensibilità, di che cosa siamo padroni?
Esiste nel nostro ambiente una specie di rispetto umano che ci blocca: il realismo biblico del tema delle nozze urta contro una visione distorta della sessualità, la quale fa deviare verso zone oscure una fonte di energie da Dio destinate a rendere matura e completa la persona, non tanto fisicamente, ma soprattutto nella sfera psichica e spirituale.
Ogni elemento della nostra natura e la nostra persona a tutti i livelli devono entrare attivamente nel vortice della potenza della forza dell’amore di Dio, per entrare in comunione di vita con lui.
Questa è la meta della vita cristiana, di questa vita dobbiamo fare esperienza, di questa esperienza siamo chiamati a diventare i testimoni più qualificati.
Le citazioni
1) Gv 15,13. 14) Gv 13,34.
2)Gv15,4.16)Gv17,2-21.
3)Gv15,5.17)Gv17,21.
4)Gv15,6.18)Gv17,22.
5)Gv16,5.19)Gv17,23.
6)Gv15,26.20)1 Gv 4,16.
7)Gv15,27.21)Gv17,24.
8)Gv16,13.22)Gv17,26.
9)Gv15,14 55.23)Gv17,26.
10)cfGv 17,3.24)cfMt 9,11; Lc 15,2.
11)Gv15,16.25)cfEf 5,22-23; Ap 21,9;
12)Gv15,16-17.21,2; 22,17; Gv 2,39.
13)Gv15,9.
Terza meditazione
L’alternativa: o vendere il campo o perdere il tesoro
Colui che incontriamo
L’ultima considerazione ci ha aperto gli occhi su ciò che troviamo nel fondo del silenzio, della solitudine, del deserto… Troviamo Dio che ci chiama a sé per farci entrare nella comunione del suo amore infinito: il suo amore infinito che diventa la sorgente della nostra vita e dell’amore che domina e anima la nostra vita stessa. Perciò il silenzio, la solitudine, il raccoglimento, il deserto, hanno un valore funzionale: non valgono per se stessi, ma per metterci nella possibilità di incontrare Dio, di stare con Dio, di aprirci alla partecipazione della insondabile ricchezza della intimità di vita con lui, che corrisponde ad una autentica vita cristiana.
Il silenzio, il raccoglimento, il deserto si pongono come punto di scelta perché danno a noi la possibilità – quando ci troviamo immersi nel silenzio, nella solitudine, nel raccoglimento – di giudicare, di scegliere, di fare nostro quel tesoro di vita intima con Dio, che altrimenti non saremmo in grado di avvertire e di valutare; e ci mettono nella condizione di dare un posto preminente alle realtà interiori che vengono da Dio e che sono a fondamento delle realtà più preziose della nostra persona: quelle che specificano la nostra stessa natura, quelle che costituiscono la ricchezza vera della nostra persona, la quale non è ricca per ciò che ha o per ciò che possiede, o per ciò di cui dispone, ma per ciò che è solidamente sul fondamento che è Dio.
A questo punto logicamente nasce una questione di vita contemplativa rivolta tutta su Dio e di vita attiva rivolta sugli impegni e sulle realtà esteriori. E’ una questione che è sempre stata viva nella storia della chiesa e nella storia della vita spirituale. Questa questione è stata impostata e trattata in diversi modi sotto l’influsso determinante delle situazioni storiche.
contemplativi?
Al fine di avere idee esatte e chiare, bisogna intendere bene soprattutto la Rivelazione e la condotta di Dio.
Intanto intendiamoci sul significato di contemplazione; nei nostri ambienti richiama qualche cosa da lasciare a ristrette categorie di monaci; di fatto è un aspetto comune di una vita spirituale vera. La contemplazione come ogni fenomeno della vita spirituale ha diverse « età »; ma ogni età è un momento della vita; così ogni età della vita cristiana è contemplativa, è destinata a maturare e può raggiungere gradi che comportano anche fenomeni straordinari.
Si contempla quando si fa attenzione a ciò che capita intorno, quando si è immersi in ciò che ci colpisce, quando soprattutto si sosta, si gode, si vive in ciò che diletta: si contempla un paesaggio, un fiore, un volto caro, gli occhi di un bambino; è qualche cosa di grandioso, di delicato, di dolce, di forte che trova la strada della sintonia con la nostra persona ed è accolto e diventa un momento singolare della nostra esistenza e un elemento nuovo, più bello, più delicato, più fresco della nostra persona.
Al di là delle cime nevose, dei tramonti dorati, dei laghi riposanti, della varietà dei colori, esiste il mondo dell’amore di Dio nostro Padre, dello splendore della sua gloria manifestata nel Figlio, della potenza della grazia dello Spirito Santo; noi siamo il punto di convergenza di questi « spettacoli » inauditi: è un mondo di persone, di eventi, di rapporti nel quale sono coinvolti il nostro essere e la nostra esistenza in tutte le dimensioni.
Esiste un fenomeno che può orientarci a comprendere la preghiera come contemplazione: la carica dell’accumulatore elettrico. Con apparecchiature opportune la corrente elettrica è accumulata nella batteria: la corrente investe la batteria, ma la energia si accumula perché trattenuta dal tipo di materiale, dai reagenti di cui è composta la batteria.
Nella preghiera contemplativa la fonte di energia sono le divine Persone e gli eventi salvifici di cui sono i viventi protagonisti; la batteria siamo noi con le nostre disposizioni e le nostre capacità reattive; il « caricatore » è la tecnica, sit venia verbo, della preghiera.
che cos ‘è contempIare ?
La preghiera è contemplativa perché ha come intento primo di stabilire un contatto personale; non impegna tanto l’intelligenza quanto tutta la persona ad essere attenta e disponibile; non è tanto lo sforzo di comprendere ma la coscienza di essere conosciuti (ricordiamo che alla fine vedremo Dio faccia a faccia allo stesso modo che saremo conosciuti da lui) 5 e di trovarci sotto lo sguardo del Dio vivente: il suo sguardo carico di amore che ci fa nuovi.
Contemplare è sostare e riposare nella sicurezza che le divine Persone mi amano e il loro amore fluisce attualmente da loro a me per essere la mia vita: contemplare è accogliere con gioia e riconoscenza l’azione trasformante dell’amore di Dio, è desiderare di essere stabiliti nell’amore di Dio.
Queste poche affermazioni vi fanno comprendere che la contemplazione è una reale comunione con la vita di Dio dove conta decisamente ciò che fa lui. Alle volte si dice che si tratta di una preghiera passiva: lo è in quanto ciò che fa Dio è preminente, ma Dio non lo fa al di fuori della nostra attenzione, del nostro fermarsi, del nostro stare ai suoi piedi 6, del nostro guardare stupito, della nostra gioia di credere di essere dei salvati, della nostra progressiva disponibilità ad essere totalmente salvati.
Intesa così la preghiera contemplativa è tutt’altro che passiva, è veramente tutta impegnata.
Ma non si carica una batteria per metterla in deposito: essa è destinata a comunicare l’energia accumulata; non si ricava energia da una batteria scarica.
Così la contemplazione ha il suo compimento naturale nell’azione; come è vano pensare che l’azione sia cristiana se non nasce e non è sostenuta dalla contemplazione!
Però l’azione, a sua volta, mentre farà sentire il bisogno della contemplazione, per via della esperienza delle persone, delle situazioni, ecc., diventerà un « reagente » che ci apre a nuovi aspetti della contemplazione. E allo stesso modo che ci sono le distrazioni durante la preghiera, così ci possono essere degli istanti felicissimi di contemplazione durante l’azione.
L’azione cristiana è di sua natura sinergica: è l’azione di Dio in noi, con noi, per noi.
condizionati nel tempo
Dicevamo questa mattina che il deserto non è il luogo dove si stabilisce la propria dimora, ma un luogo di passaggio. Bisogna vedere in nostro Signore Gesù Cristo il tempo del deserto e il tempo dell’azione, il tempo del ministero, il tempo dell’apostolato, il tempo del compimento della missione che gli ha affidato il Padre, il tempo della stanchezza fisica e psichica per il molto camminare, il predicare, il sostenere gli attacchi che gli venivano dai suoi nemici; e poi il tempo del riposo, soprattutto il momento della solitudine e della preghiera.
Noi siamo nel tempo, viviamo nel tempo, dobbiamo accettare di vivere nel tempo, dobbiamo convincerci di essere soggetti al succedersi e quindi allo scorrere del tempo, dobbiamo ammettere che non possiamo fare contemporaneamente più cose, ma una per volta.
Quando noi ci dedichiamo alla predicazione, all’esercizio del ministero in genere, quando studiamo, quando svolgiamo i nostri impegni, dobbiamo pensare che questa è vita attiva e che non ha niente a che fare con la vita contemplativa:una attività esteriore separata da quella interiore? Necessariamente, no. Però, noi, così come siamo fatti, poiché siamo delle creature che vivono nel tempo, abbiamo bisogno di dare uno spazio adeguato ad ogni espressione e ad ogni bisogno della nostra vita. C’è il momento del nutrimento fisico e c’è il momento del dispendio delle energie fisiche, c’è il momento della carica delle nostre energie spirituali e c’è il momento dell’impiego delle energie di cui ci siamo forniti. Non c’è separazione, anzi, ci deve essere continuità. Il momento dell’azione presuppone il momento della contemplazione. La nostra vita attiva deve derivare dalla nostra vita contemplativa. L’azione deve essere motivata, animata e deve trovare la sua spinta abituale nella contemplazione.
Dobbiamo avere la preoccupazione di assicurarci il tempo da dedicare alla contemplazione:raccoglimento per pregare, solitudine per incontraci con Dio, silenzio per lasciare parlare lui, deserto per liberarci da ciò che distoglie la nostra attenzione da Dio stesso.
Lasciate che vi dica: approfittate di questo breve tempo in cui state ancora in seminario dove le cose sono facilitate da un ritmo di vita che si adatta molto ad equilibrare questi due tempi; intendete bene il momento della contemplazione, il momento della preghiera, il momento della riflessione spirituale, il momento dell’incontro con Dio, approfittatene per consolidare le vostre convinzioni, per creare delle abitudini valide che tengano anche quando non ci saranno più le condizioni esterne che le favoriscono: l’orario, il richiamo, la presenza degli altri, perché, quando sarete liberi di disporre del vostro tempo, oppure avrete la impressione di non poter disporre di alcun tempo, potrete avere la tentazione di giudicare più importanti le attività che il loro contenuto.
ritmi adatti
Abbiate davvero la capacità di restare fermi su questo punto. Oggi la vita ha un ritmo che non è più quello naturale delle stagioni e del sorgere e del tramontare del sole. E’ inutile prendercela con questo ritmo odierno molto artificioso che fa male non solo alla vita spirituale ma a tutta la vita; comunque è questione di salvare noi stessi, di salvare domani la efficacia del ministero, di dare una ragione alla nostra esistenza, di trovare una giustificazione valida del nostro sacerdozio, di rimanere ancorati alla Roccia che dà stabilità alla nostra esistenza, di attingere alla sorgente della nostra vita e della nostra attività.
Siete giovani ma non siete più bambini; non so se siete in grado di prendere un atteggiamento critico riguardo ai fatti che accadono oggi nella chiesa, in particolare nel nostro mondo ecclesiastico. Ci sono problemi gravissimi e seri che nascono da una situazione nuova e da una formazione vecchia. Dove ognuno di noi ha una responsabilità, dove si può veramente rimediare e quindi fare qualche cosa è su questo punto: la preghiera. Né io Vescovo né voi seminaristi, guardando il sacerdote, dobbiamo prendere un atteggiamento di accusa, però dobbiamo guardare le cose realisticamente e chiederci: pregano i sacerdoti oggi? quanto pregano? come pregano?
Non dico che tutti i problemi si risolvano unicamente pregando, ma assicurata la preghiera è più facile risolvere gli altri, sia quelli che riguardano le lacune di una formazione non adeguata ai tempi, sia quelli che riguardano le difficoltà che presentano le situazioni odierne.
Miei cari, ve lo dico in questa occasione particolarissima di grazia: se volete andare tranquilli verso il sacerdozio, se volete andare verso il sacerdozio con onestà, mettete al sicuro la vostra vita di preghiera.
Non preoccupatevi di quello che dovrete dire o fare e di come lo dovrete fare; anche di questo vi preoccuperete: in particolare abbiate una autentica sensibilità umana e una autentica apertura verso i fratelli. Ma convincetevi: una autentica capacità di dare ai nostri fratelli ciò che attendono da noi, può esserci unicamente se siamo uniti a Dio, se abbiamo di Dio quella conoscenza e delle cose di Dio quella esperienza di cui abbiamo parlato in questi giorni.
C’è il momento della vita contemplativa e il momento della vita attiva, ma della vita, perché sia vita, è indispensabile fare una sintesi. L’unità della vita del sacerdote è un problema di cui si è preoccupato seriamente il Concilio nel « Presbyterorum Ordinis ».1
unità armonica
Dove si fa l’unità della vita sacerdotale? Si fa nell’intimo della nostra persona, nel nostro cuore. Il nostro cuore deve essere talmente posseduto da Dio da essere ininterrottamente orientato a Lui. Ho detto il nostro cuore, non la nostra attenzione: perché la nostra attenzione la diamo successivamente a diverse cose. « Age quod agis », dicevano i nostri vecchi.
Qui, chi viene al monastero subisce un esame: « si revera Deum quaerit ». E’ un esame a cui noi dobbiamo sottoporci continuamente, quando studiamo, quando vogliamo fare dell’attività spirituale, quando domani dovremo fare l’attività pastorale. In ogni istante dovremmo essere in grado – se fossimo interrogati all’improvviso -di rispondere che cerchiamo Dio: « sono occupato nelle cose del Padre mio » 2 E’ difficile per la nostra natura, ma è possibile per la grazia che Dio ci dà per corrispondere a questa esigenza della nostra vocazione. In questo modo si fa l’unificazione di tutta la nostra vita e quindi di tutte le nostre attività interiori ed esteriori.
libertà del cuore
Perciò dobbiamo tendere a realizzare in noi stessi la libertà del cuore. Che il nostro cuore non sia di nessuno, ma sia di Dio. Thomas Merton nel « Segno di Giona » fa, ad un certo punto, una riflessione curiosa. Il superiore, il giorno prima, gli aveva procurato una « Remington » nuova ed egli si sorprende in questa eventualità: sta a vedere che adesso la «Remington» nuova prende il posto di sua maestà Domine Iddio! Dove può essere preso in trappola il nostro cuore! Anche da cosa da niente. Basta un filo di refe per impedire ad un uccello di volare. Un filo di refe non è una grande cosa. Guardate che possiamo avere delle prevenzioni circa determinate mortificazioni perché le giudichiamo cose da poco, senza importanza.
Un orientamento abituale verso Dio, ben inteso. Ci sono in seminario dei ragazzi che prendono troppo sul serio la vita spirituale: allora non si distraggono mai, sono sempre superconcentrati, pregano continuamente, poi diventano scrupolosi, vanno incontro all’esaurimento nervoso, ecc. No. Omnia tempus habent! Ciò che importa è che Dio sia così in evidenza, così in primo piano, con tutta la ricchezza del suo mistero, da non sfuggirci mai.
Importante, quindi, è vigilare. 3 Siamo a un punto concreto. Di qui voi dovete essere capaci di giustificare lietamente, serenamente, liberamente, la necessità di un tirocinio ascetico – per dirlo con un linguaggio vecchio -, di una disciplina interiore ed esteriore, di un allenamento. E’ indispensabile che la nostra giornata sia sempre segnata dalla preoccupazione di stare attenti a Dio e di rimuovere ciò che distoglie dà lui. A questo proposito, non la mortificazione per la mortificazione, ma la mortificazione per raggiungere la libertà del cuore, per metterci nella condizione di cercare abitualmente Dio, per assicurare quindi la nostra vita spirituale.
Distacco. Mettere una certa distanza. Miei cari, oggi si parla molto di incarnazione, di immersione nel mondo e di altre cose che, se intese rettamente, sono giuste e doverose. Nostro Signore Gesù Cristo si è fatto uomo; siamo dinanzi al mistero della Incarnazione, ma facciamo attenzione a tutto ciò che accompagna la realizzazione di questo mistero. Vediamo la condotta di nostro Signore Gesù Cristo; lui certamente non aveva il peccato originale, eppure vediamo che la sua è la condotta di un distaccato.
Columba Marmion nel suo epistolario dice che vicino alle persone, alle cose, a ciò che ci fa piacere e ci dà gioia, dobbiamo stare come quelli che si appoggiano, ma non si riposano, che ne prendono conforto, ma che non se ne fanno un bisogno. Quante gioie, così dette innocenti, e che sono veramente innocenti, possiamo incontrare. Le dobbiamo disprezzare? Assolutamente no. Le dobbiamo rifiutare? No. Le dobbiamo accogliere? Si, ma con distacco, mettendo una certa distanza perché non diventino insidie. Non aspettiamo che diventino un pericolo; mettiamo una zona di sicurezza: l’abitudine alla mortificazione.
La mortificazione comporta sempre una rinuncia; la rinuncia è la condizione per essere discepoli di Cristo 4; se la rinuncia non ha anche un lato effettivo, oltre che affettivo, rimane la bella favola, che il cuore racconta all’intelligenza (De Maistre).
Ognuno deve sapere fino a che punto deve rinunciare: dalla propria esperienza, dal proprio giudizio; ma è indispensabile che intervenga il giudizio di un altro, esperto e prudente, perché in questo campo non bisogna presumere di essere giudici imparziali.
Ricordiamo la parabola di Gesù. Un uomo ha scoperto un tesoro nel campo. Va, vende tutto quello che possiede, viene e compera il campo per assicurarsi il tesoro. 5 Se fosse stato attaccato alle cose che aveva da non avere il coraggio di venderle, non si sarebbe assicurato il tesoro.
Gli apostoli per bocca di Pietro dicono al Signore: « ecco, noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque avremo noi ? ». 6 San Gregorio commenta: che cosa hanno mai lasciato? Due barche sdruscite, un po’ di reti smagliate.
Non è importante che sia tanto o poco quello che si lascia. Importante è lasciare tutto perché si è scoperto un tesoro. E il tesoro è Dio nostro Padre, è Gesù Cristo nostro Salvatore, è lo Spirito Santo che santifica e salva noi e gli altri.
1) P.O. 14.
2) cf Lc 2,49.
3) cf Mt 24,42; Mc 14,38.
4) cf Lc 14,33; Mt 10.37.
5) cf Mt 13,44.
6) Mt 19~7
Quarta meditazione
I figli con i quali il Padre si intrattiene come con amici
Entriamo con un atto esplicito di fede nell’avvenimento di questi giorni e crediamo all’amore del Padre che nel suo Figlio e sotto l’azione dello Spirito Santo, ci vuole introdurre nella intimità della sua vita per farcela comprendere, per parteciparcela, per renderci strumenti adatti a svolgere il ministero di salvezza in mezzo ai nostri fratelli.
Dedichiamo la giornata di oggi, con la grazia del Signore, l’assistenza di Maria santissima e l’intercessione di san Carlo, al tema della preghiera.
Anche ieri abbiamo intuito quanto sia indispensabile per la nostra vita di battezzati e per la nostra vita di chiamati a dedicarci interamente al servizio di Dio per il bene dei nostri fratelli, lo stare con Dio, l’arrivare ad una esperienza di Dio in mezzo a noi e di ciò che egli vuole compiere per la nostra salvezza. Questo si attua particolarmente durante la preghiera.
perché pregare
Per togliere ogni dubbio e per non appoggiarci semplicemente a delle argomentazioni umane o a delle deduzioni teologiche, riferiamoci alla persona di Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, che afferma con tutto se stesso, con il suo comportamento e con il suo insegnamento, la necessità della preghiera. Non c’è altra cosa che Gesù abbia proclamato più indispensabile della preghiera per entrare nel regno dei cieli, per entrare nel disegno di Dio, per fare la volontà di Dio.
Il suo esempio. Egli certamente era unito ininterrottamente al Padre, ma ha manifestato all’esterno questa sua unione con lui, questo suo colloquio ininterrotto con lui, questo suo riferimento di tutto se stesso al Padre. La rivelazione ci scopre il primo impulso di Gesù nel momento in cui si compie il mistero della Incarnazione.1
Questo lo scorgiamo a dodici anni quando Gesù è smarrito nel tempio e poi durante la sua vita pubblica. Gesù dà inizio alla sua vita pubblica con il ritiro neI deserto, accompagna la sua vita pubblica con le pause della preghiera, con la interruzione della sua attività apostolica per ritirarsi in preghiera trascorrendo notti intere «in oratione Dei » 2
Il suo insegnamento. Gesù insiste in ogni occasione sulla necessità di pregare sempre, di pregare ininterrottamente e insegna a pregare. 3 La sua insistenza sulla preghiera era talmente frequente che gli apostoli gli chiesero di insegnare loro a pregare. Sappiamo quale preghiera ha loro insegnato. Il « Padre nostro » è il modello di ogni preghiera.
come prega Gesù
Le note della preghiera di Gesù sono l’intimità e l’abbandono.
Cogliamo il senso dell’intimità della preghiera di Gesù nel « Padre nostro ». Gesù chiama Dio con un nome che nel suo ambiente non si sarebbe usato. Forse è soltanto questione di sfumature, ma anche nel nostro linguaggio altro è dire padre, altro è dire papà. Gesù usa questa seconda espressione per introdurre la preghiera, per invocare il Padre. Segno, quindi, di confidenza e di fiducia, segno di senso filiale profondo e illimitato nei confronti di Dio. Questa intimità, Gesù la rivela nell’ultima preghiera, la così detta preghiera sacerdotale, nel cenacolo.
Qui l’intimità con il Padre, la fiducia nel Padre sono espressi nei termini più toccanti. L’intimità di rapporti tra lui e il Padre, nei quali vuole introdurre i suoi, è la caratteristica di tutta la preghiera. E’ un momento della preghiera di Gesù che l’evangelista Giovanni ha registrato, ma dobbiamo pensare che la sua preghiera è sempre stata contrassegnata da questa caratteristica, che porta e alla nostra conoscenza ciò che è la vita intima in Dio, quali sono i rapporti delle divine Persone nella loro vita: rapporti di amore infinito, quindi, una intimità senza limiti. Veramente qui si realizza: « quello che è mio è tuo, quello che è tuo mio ». La scuola dice: tutto è comune in Dio: tutto ciò che esiste in Dio, il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo lo posseggono allo stesso titolo interamente. Tutto è comune: ecco quindi la ragione della intimità e della fiducia. Non ci sono riserve: è tutto in famiglia.
Sono povere espressioni umane per dire le cose altissime e misteriose di Dio.
Altra nota della preghiera di Gesù è l’abbandono, la piena disponibilità alla volontà di Dio. Entrando nel mondo, Gesù dice:
« ecco mi hai dato un corpo, vengo Padre per fare la tua volontà » 4; « non sapevate che debbo attendere alle cose del Padre mio ? ». 5 Dichiara che il suo cibo è fare la volontà del Padre 6; « faccio sempre ciò che a lui piace ». 7 Questo carattere della preghiera di Gesù si manifesta in particolare nella sua preghiera più impegnativa: « non la mia ma la tua volontà sia fatta » 8 e si conclude: « tutto è compiuto », 9 « nelle tue mani rimetto il mio spirito »10. L’abbandono totale nelle mani del Padre perché si compia tutto il suo disegno, perché si compia tutta la sua volontà, perché il Padre possa esprimere tutto il suo amore dinanzi a tutta la creazione.
al primo posto
Ora, sull’esempio di Gesù, noi dobbiamo dare alla preghiera un posto nella nostra vita. Questa attività del nostro spirito, se siamo credenti, se siamo religiosi, se pensiamo di spendere la nostra esistenza per portare a Dio i nostri fratelli, deve avere il primo posto. Avere il primo posto significa che dobbiamo darle il tempo propizio, adatto, sufficiente. Starà a noi fare le scelte opportune e organizzarci in modo da assicurare il tempo alla preghiera, poiché la preghiera è una attività difficoltosa e richiede sforzo e condizioni esteriori favorevoli. Vi prendete una grande responsabilità quando chiedete che gli orari, in seminario, siano disposti in modo da pregare con più libertà; è una scelta che dovete fare pensandoci bene e seriamente.
Poi, dovete guardare anche all’esperienza dei sacerdoti, ripeto, non per giudicare, ma per imparare. Ci sono cose alle quali noi anziani non siamo stati educati; non per questo siamo giustificati; ma per noi, a volte si tratta di cambiare totalmente una abitudine di vita. Voi, invece, questa abitudine di vita, siete nella condizione felice di poterla interamente e solidamente impostare.
Padre Voillaume, predicando gli esercizi al Papa, ha detto che, secondo il ritmo della vita di oggi, ci potrà essere una preghiera quotidiana, ma non è sufficiente perché manca il tempo per prolungarla e approfondirla quando si è presi dalle attività esterne apostoliche. Bisognerà trovare un giorno alla settimana da dedicare all’approfondimento della preghiera, al minimo mezza giornata. Egli suggerisce un giorno al mese fuori dall’ambiente, un ritiro più prolungato una volta all’anno e poi, dopo un determinato numero di anni (poveri noi, perché questo non siamo capaci di farlo!) sospendere le attività per un anno intero per dedicare tutto il tempo all’approfondimento della preghiera, allo studio, all’aggiornamento.
che cos’è pregare
Come concepire la preghiera? La dobbiamo concepire in un modo veramente cristiano, cioè secondo la Rivelazione. Noi, quando pensiamo alla preghiera, pensiamo di metterci in ginocchio in un atteggiamento supplichevole verso Dio per chiedere qualche cosa, sia pure la santificazione e la salvezza nostra e del mondo. Non è che questo sia sbagliato, ma il senso della rivelazione è questo: non siamo noi che cerchiamo Dio, ma è Dio che cerca noi e ci mette in condizione di poterlo trovare. Quindi la preghiera deve essere prima di tutto un incontro con il Padre che viene verso di noi, che siamo i suoi figli.
Tutta la storia della salvezza è l’itinerario del Padre che va incontro ai suoi figli per mezzo del suo Figlio, nello Spirito.Gesù dirà: « chi vede me, vede il Padre ».11 In Gesù Cristo noi incontriamo il Padre; in Gesù Cristo il Padre viene nel mondo in mezzo ai suoi figli. Noi dobbiamo preoccuparci di incontrare il Padre per mezzo di Gesù Cristo, sull’esempio di Gesù Cristo, attraverso l’insegnamento di Gesù Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo.
La preghiera è una attività soprannaturale, non solo un impegno delle nostre facoltà. Abbiamo bisogno di essere illuminati per incontrare il Padre, altrimenti vediamo solo le cose, ci incontriamo solo in avvenimenti storici e non incontriamo lui, che vuole manifestarsi nelle creature e negli eventi. E’ lo Spirito che ci introduce in questa conoscenza soprannaturale; è lo Spirito Santo che parla « di dentro » per ripeterci l’insegnamento di Gesù Cristo sul Padre; è lo Spirito che ci dà la coscienza di essere figli di Dio; 12 è lo Spirito che anima « di dentro » e diffonde nel nostro cuore la carità.
La carità, l’amore, il cuore, per la Bibbia sono la facoltà conoscitiva per eccellenza. Noi dobbiamo incontrarci con Dio, dobbiamo conoscere Dio con la conoscenza del cuore nell’intimo di noi stessi, con il profondo di noi stessi.
Chautard nell’ « Anima dell’apostolato » 13 (un libro scomparso dalla circolazione che si potrebbe ancora leggere con molto frutto) dice che la preghiera riesce nella misura del tempo che si spende per prepararla, più esattamente, per metterci alla presenza di Dio per incontrarlo come si incontra una persona.
S. Ignazio, prima della meditazione, propone la composizione di luogo la quale non è altro che un suggerimento pratico per mettersi alla presenza di Dio: per incontrarsi con Gesù Cristo, per incontrarsi con il Padre sotto l’azione dello Spirito Santo, con la preoccupazione di inquadrare concretamente l’incontro, anche per tenere impegnati sensi e fantasia.
Fino a quando non si realizza questo incontro nella fede sotto l’azione della grazia, non incomincia la preghiera. Purtroppo dedichiamo molto poco tempo alla preparazione della preghiera. Se dedicassimo quel po’ di tempo che abbiamo a disposizione esclusivamente a realizzare l’incontro con Dio, sarebbe molto più proficuo che dire tante cose, sia pure guidati dalla fede con l’intenzione di rivolgerci a Dio. Finiamo col rimanere nel generico, quasi nell’astratto. Solo intenzionalmente c’è qualche cosa, ma realmente, nel nostro spirito non si opera il contatto, l’incontro con Dio che sono la base della preghiera.
chi prega ascolta
Dio, nella preghiera, va ascoltato. Gesù insiste nel dire che non bisogna moltiplicare le parole, che non bisogna essere come i pagani o come quelli che non capiscono. 14 Se è Dio che viene incontro a noi, è lui che ha da parlare, è lui che ha le cose importanti da dire e da farci intendere.
La preghiera deve essere ricerca e scoperta: ricerca e scoperta di tutto il disegno di Dio, di tutta la ricchezza mai esaurita dell’amore di Dio nei nostri confronti.
Dio interessato a noi;
Dio per noi;
Dio rivolto verso di noi;
Dio proteso su di noi con tutto se stesso per comunicarci tutto se stesso: la lettura e la meditazione della parola di Dio ci aprono la via alla scoperta di queste meraviglie.
Non dobbiamo accontentarci di sapere solo qualche cosa di Dio. Mentre non dobbiamo essere i curiosi scrutatori della maestà di Dio, dobbiamo però essere gli adoratori della sua volontà, i quali si aprono ad una accoglienza amorosa, guidati da un profondo senso del mistero e perciò dall’ineffabile. Dio che rivela se stesso non lo fa per passatempo: Dio che parla è il più grande evento della storia; l’ascolto è il più grande dovere dell’uomo. San Paolo piega le ginocchia dinanzi a nostro Signore Gesù Cristo e al Padre, perché dia ai suoi la conoscenza del suo mistero. 15
Servitevi anche dello studio per stare in ascolto di Dio.
Cari ragazzi, lasciate che vi dica – se non vi dico le cose in questo momento quando potrò dirvele? -: studiate volentieri, prendete sempre maggior interesse allo studio. Parlo dello studio scolastico del quale oggi non apprezzate ancora l’utilità pratica. Siete tanto desiderosi di fare, di essere disponibili, ma non altrettanto di studiare. Cercate di capirmi. Cercate di capire che senso dò allo studio, che funzione ha lo studio. Pregare non è recitare dei salmi o dei « Pater noster ». Pregare è entrare nel mistero di Dio e lasciare che Dio entri con il suo mistero in noi. La chiave normale per noi, per entrare nella ricchezza della conoscenza del mistero di Dio, è lo studio.
Uomini come De Grandmaison, Sertillanges, Guardini, De Chardin, ecc., sono persone che hanno fatto camminare il loro tempo. Sono grandi pensatori, ma anche uomini santi: hanno fatto tutt’uno dello studio e della preghiera; si sono serviti dello studio condotto con rigore scientifico e con metodo per arricchire la loro personalità ed essere autentici maestri
La preghiera deve essere un accoglimento attivo di Dio che si comunica a noi. Metto la qualificazione « attivo » perché non si cada in un certo quietismo. Questo accoglimento di Dio che si rivela deve tradursi in un atteggiamento contemplativo. Noi dobbiamo tendere alla preghiera contemplativa non per fare cose strane, ma per fare cose autentiche. Dobbiamo stare davanti al Padre, come Maria ai piedi di Gesù, ad ascoltarlo, accogliendo le sue parole di vita più con la disponibilità attiva di tutto noi stessi che con lo sforzo raziocinante della intelligenza.
1) cf Ebr 10,9.
2) Lc 6,12.
3) cf Mt 26,41; Lc 22,40; Lc 18,1.
4) Ebr 10,9.
5) Lc 2,49.
6) cf Gv 3,34.
7) Gv 8,29.
8) Lc 22,42.
9) Gv 19,30.
10) Lc 23,46.
11) Gv 14,9.
12) cf Gv 16,13; 14,26; Rin 8,16.
13) Chautard, L’anima di ogni apostolato, edizioni paoline.
14) cf Mt 6,7-8.
15) cf Ef 1,16 SS.
Quinta meditazione
Chi prega edifica la propria persona
Il mistero dell’efficienza personale in Dio
Mi ha colpito e anche impressionato l’insistenza con cui K. Rhaner afferma che nella preghiera « l’uomo si attualizza integralmente ».1
E’ facile la tentazione di considerare la preghiera come una attività che rimane fuori dall’ambito della efficienza esistenziale. Oggi c’è una preoccupazione vivissima a questo proposito: i valori si apprezzano nella misura della loro efficienza concreta.
Noi cercheremo di scoprire in che senso la preghiera rende efficiente la persona sul piano della esistenza. Per comprendere una realtà di così capitale importanza non c’é via migliore che rifarsi al mistero della efficienza infinita della esistenza infinitamente feconda di Dio. Bisogna rifarsi al mistero di Dio proprio in quanto è un mistero di Persone, in quanto si tratta di un Dio personale, il quale manifesta il mistero della sua potenza proprio nella sua esistenza di Padre, di Figlio, di Spirito Santo.
Naturalmente quando si parla del mistero di Dio, pur sapendo di fare delle affermazioni sicure, si sa che il loro senso è infinitamente approssimativo, analogico; inoltre il nostro discorso prescinde da preoccupazioni di precisione scolastica e si attiene piuttosto al linguaggio della rivelazione. A noi basta la certezza di trovarci dinanzi ad affermazioni vere, coscienti dell’ineffabilità del mistero.
Quando parliamo di un Dio personale, dobbiamo incominciare a mettere l’accento sul fatto che egli in tanto è personale in quanto è infinitamente distinto da qualsiasi cosa e tutte e singole le cose stanno infinitamente distinte dinanzi a lui.
La rivelazione però, quando ci introduce nell’intimo del mistero della esistenza di Dio, ci fa scoprire che Dio è personale non solo perché distinto da ogni cosa e ogni cosa sta distintamente davanti a Lui: la distinzione sta in Dio stesso, anzi l’esistenza in Dio è proprio l’abisso insondabile delle tre divine Persone di un solo Dio infinitamente distinte.
Il Padre è Dio,
il Figlio è Dio,
lo Spirito Santo è Dio;
ma il Padre non è il Figlio né lo Spirito Santo;
il Figlio non è il Padre né lo Spirito Santo;
lo Spirito Santo non è il Padre né il Figlio.
Ma l’unità è pari alla distinzione: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio.Non da speculatori, ma come adoratori accostiamoci al mistero, convinti di accostarci alla sorgente e al modello supremo della nostra esistenza di persone fatte a immagine e somiglianza di Dio; teniamoci nella disposizione di impegnarci a vivere ciò che scopriamo.
Il principio unico e infinitamente unico, perché in Dio tutto è infinito, è il Padre. Il Padre, come Padre, è il principio primo e il termine ultimo di tutta l’attività personale che costituisce la vita e la esistenza in Dio.
Il Figlio è accoglimento, dono e comunione: accoglimento del Padre; il Padre infatti è padre perché dona tutto se stesso al Figlio, è tutto nel Figlio, è tutto per il Figlio. Il Figlio è figlio nell’atto di accogliere totalmente il Padre, di donarsi al Padre, di riferirsi a lui, di riconoscere di essere totalmente del Padre, in una comunione infinita.
Lo Spirito Santo anima il Padre nell’atto di donarsi totalmente al Figlio, come anima il Figlio nell’atto di accogliere e di donarsi al Padre: la gratitudine dell’accoglimento e lo slancio del donarsi sono impulsi dello Spirito. Lo Spirito Santo è l’amore infinito, sostanziale, personale, del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre.
Sempre balbettando:
il Padre è principio e termine;
il Figlio è immagine, splendore, verbo;
lo Spirito Santo è amore, compimento, comunione.
chi prega incontro le divine Persone
La preghiera in quanto incontro con Dio è un incontro con ciascuna delle divine Persone, ma la « via » 2all’incontro è il Figlio. Noi non sappiamo perché; sappiamo che il Padre ha voluto rivelarsi nel Figlio: « chi vede me, vede il Padre mio » 3; che nessuno arriva al Padre se non per mezzo del Figlio 4; che nessuno conosce il Padre se non colui al quale il Figlio lo rivela. 5
Sappiamo pure che anche il Figlio ci deve essere rivelato: è compito dello Spirito Santo. La sua è una rivelazione « creatrice »: in Cristo Gesù fa di noi delle creature nuove 6, figli nel Figlio 7, ci rende coscienti della realtà nuova del nostro essere e dei nostri rapporti, ci fa partecipi della capacità del Figlio di conoscere le cose del Padre e di amare come egli ama il Padre e i fratelli.
Ma ritorniamo alla « via». Teniamo presente che il Verbo è l’immagine della sostanza del Padre, lo splendore della sua gloria 9; che tutto è stato creato in lui 10; che in lui tutto deve essere ricapitolato e che l’uomo raggiunge la sua perfezione in lui 12, secondo la misura di grazia disposta per ciascuno 13; una misura, penso, che non limita una quantità, ma che specifica la fisionomia personale di ciascuno.
Dunque in Cristo e nel momento più pieno della sua vita, la sua preghiera, noi troviamo l’unica e autentica sorgente e l’unico e perfetto modello della realizzazione della nostra persona.
Ci riferiamo alla preghiera di Gesù nel senso della sua esistenza di Verbo fatto carne, la quale manifesta nel tempo e visibilmente la sua relazione personale col Padre, nello Spirito; è la realizzazione perfetta, visibile, anche se misteriosa, della persona in quanto è totale accoglimento, incondizionata donazione, piena comunione.
Questo è l’essere stesso del Cristo per cui è costituito unico e sommo Sacerdote di tutta la creazione naturale e soprannaturale; è il movimento della sua esistenza dall’istante della Incarnazione 14 al « consummatum est » 15 del Calvario; è l’anima della sua missione e della sua opera.
In Cristo abbiamo inoltre una esistenza nella quale i momenti della preghiera specifica sono, tanto per tentare di esprimerci, gli antecedenti e la conseguenza di tutta l’attività personale: in un modo unico tutta la vita di Cristo è preghiera, perché tutta la sua vita è un impegno cosciente (la coscienza del Cristo !), libero, totale di essere « ad », « per », « con » rispetto a tutto ciò che è Dio e a tutto ciò che è di Dio.
La dossologia finale delle grandi preci eucaristiche della liturgia latina ci offre una forma felicissima per inserire la nostra preghiera in quella di Cristo: « per Ipsum, cum Ipso et in Ipso est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria ».
State tranquilli: non cedo alla tentazione di farne il commento; cerco solo di precisarne il senso.
Per Ipsum: abbiamo già visto come il Verbo è colui per mezzo del quale è stato fatto ciò che esiste e solo in lui tutto ha la sua consistenza; ciò che noi siamo personalmente, lo siamo per mezzo suo: non c’è nulla in noi che esista e che non venga da lui.
Cum Ipso: non soltanto il nostro essere, ma ogni nostra capacità, in tutti gli ordini di cose, ogni nostra energia viene da lui ; al « senza di me non potete fare nulla » 16 dobbiamo dare un senso illimitato. Tutto il nostro destino è indissolubilmente legato a Cristo e ai suoi misteri: ricordiamo il significato della particella « cum » che san Paolo fa precedere a tutti i verbi che descrivono i misteri di Cristo e la nostra partecipazione ad essi, specialmente la sua morte, risurrezione e ascensione.
In Ipso: Cristo è la pienezza verso cui noi dobbiamo tendere; essere trovati in lui è possedere la sua giustizia, la sua grazia, la sua vita; significa essere dei suoi, appartenere al regno del Figlio dell’amore del Padre. 18
Quando noi preghiamo realizziamo noi stessi, secondo la nostra misura personale, perché in Cristo non solo ci troviamo davanti a un modello; noi siamo uniti e comunichiamo con la sorgente totale e il
« consumatore » della nostra vita e della nostra esistenza.
la persona è accoglimento
Per Ipsum, cum Ipso noi siamo accoglimento del Padre e di tutte le sue creature. La preghiera è il momento della chiara coscienza, della libera accettazione e della ferma adesione nei confronti del mistero di Dio.
Mettersi alla presenza di Dio non significa che la preghiera cristiana ha inizio; è un atto molto più definito: è l’incontro personale.
E’ incontrare il Padre in persona il quale viene incontro a me, mi getta le braccia al collo, mi bacia, mi introduce nella sua casa e dispone che io sia reintegrato nella mia dignità di figlio. 19 La parabola evangelica descrive in modo pittoresco una realtà estremamente sorprendente e inesauribile nel suo significato.
Io non esistevo, io ero perduto; il Padre in un atto infinito della fecondità del suo amore mi crea e fa di me un essere meraviglioso, mi ricrea e fa di me un essere ancora più stupendo. Io mi vengo a trovare nella corrente e nel prolungamento dell’atto di amore infinito con cui il Padre genera il Figlio da tutta la eternità e per sempre; la mia sorte è indissolubilmente legata al disegno nel quale Cristo è il primogenito di tutta la creazione 30, di tutti i fratelli 21 e capo del corpo della chiesa. 22 Questo sono io, questo è il mio mondo, l’ambito della mia esistenza, la straordinaria ricchezza della mia eredità.
Il Padre « che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma che l’ha consegnato per tutti noi, come non sarà disposto a darci ogni altra cosa insieme con lui »? 23
Quando io prego, a poco a poco, in Cristo e per l’azione dello Spirito, io prendo coscienza, acquisto la certezza, sono preso dallo stupore e dalla incredibile gioia che Dio è il mio padre; che tutto ciò che esiste, il mio Padre l’ha fatto per me.Io non esistevo, io ero perduto; quale impensabile avventura che io sia, che tutto sia mio! Quando io prego, mi accolgo dalle mani del Padre che mi crea ininterrottamente e mi fa nuovo ad ogni istante;
accolgo con gratitudine che Dio sia mio padre;
accolgo il dono del Figlio consegnato per me alla morte e risuscitato;
accolgo il dono dello Spirito, luce, forza, fuoco della mia esistenza;
accolgo il dono della sua Parola con cui mi crea, con cui si intrattiene con me come un amico, con cui mi introduce nei suoi segreti;
accolgo la sua grazia e sono partecipe della sua natura, comunico alla vita del Figlio e sono una nuova creatura nello Spirito;
accolgo me stesso, nella mia insuperabile dignità di figlio di Dio e nei mieti limiti di creatura: accettare se stessi nei propri limiti non è rassegnazione, è un atto di fede nell’amore sapientissimo del mio Padre il quale mi ha concepito con queste dimensioni, mi vuole a questo posto e io sono certo che non mi perdo tra le pietre dell’edificio, ma che tutto l’edificio è quella stupenda costruzione perché ci sono io al mio posto.
Il mio Padre nutre gli uccelli dell’aria e veste i gigli del campo 24: nella mia preghiera non posso separare l’universo e ciò che in esso abita 25 dal mio Padre creatore e signore di tutto, il quale ha disposto tutto per me. 26 Oggi l’uomo di scienza ha strappato un gran numero di segreti alla natura e l’uomo della tecnica ne ha convogliate le energie in strumenti dalla potenza e dalla capacità stupendi; l’uomo religioso può avere la sensazione che l’universo non appartenga più a Dio: si conoscono e si sfruttano le « cause seconde » e pare che Dio non abbia a che fare con esse; esiste una dissacralizzazione che equivale a una larvata convinzione che l’ambito della creazione dominato dall’uomo non appartenga più a Dio: conoscere le cause dei fenomeni non equivale ad averle create.
Quando io prego, compio un atto di fede e riconosco che tutto è di Dio; tutto è dono di Dio; tutto è segno di Dio che si dona a me. 27 L’aria che respiro, l’acqua che bevo, il pane che mangio, i colori che vedo, ecc. sono di Dio, sono per me, sono un sacramento della sua paternità per me.
Questo universo in cui siamo immersi è fatto per essere percepito e gustato dai nostri sensi, per essere intuito dalla nostra sensibilità di creature ragionevoli, per essere capito dalla nostra intelligenza, per essere dominato dalle nostre capacità; tutto questo è religioso, è riferire a Dio, è accogliere da Dio, è accogliere Dio nel suo linguaggio più «corporale », è pregare. La varietà inesauribile della bellezza delle creature, l’armonia insondabile dell’universo devono vibrare nel cuore di chi prega, prima che nelle espressioni di chi fa dell’arte.
Se noi non coinvolgiamo il mondo sensibile nel movimento della preghiera e quindi della nostra vita religiosa, non siamo i pontefici dell’universo, e l’uomo, immerso nel mondo della tecnica, non sarà in grado di trovare la strada che porta a Dio.
Al vertice della creazione e quindi nell’intimo del cuore del Padre c’è l’uomo. Accogliere l’uomo è pregare, non nel senso di pregare per gli altri: per chi non crede, per chi è in peccato, per chi soffre, ecc.; chi accoglie il Padre accoglie i figli. 29
Accogliere significa autenticare la propria personalità nella povertà più radicale: « che cosa hai che tu non l’abbia ricevuta ? ». 30 Solo chi ha chiara questa convinzione è povero secondo il Vangelo. Ma nello stesso tempo accogliere significa essere ricchi di tutta la insondabile ricchezza di Dio: esiste una ricchezza segreta e intima di coloro che godono della gioia di sapere che valgono più dei gigli dei campi e degli uccelli dell’ aria, anche se sono privi di cibo e di vestito a causa dell’egoismo dei figli di Dio.
la persona è donazione
La persona è il punto in cui si riversa Dio in persona, il suo amore e i suoi doni: però non è un ghiacciaio in cui si solidifica e immobilizza ciò che vi precipita dall’alto; è piuttosto « come il mare – di manzoniana memoria 31 – che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi ».
Come abbiamo già ripetuto è proprio del dinamismo della persona trasmettere ciò che ha accolto in un atteggiamento di dono.
La preghiera è il momento in cui il senso di questo dinamismo si fa chiaro, è razionalizzato, diventa decisione ed elemento della esistenza; è il momento dell’incontro personale con Dio: con Dio Padre, Figlio, Spirito Santo, nel quale esistere è donarsi; è l’incontro con il modello vivente e la sorgente dinamica di questo aspetto costitutivo della nostra persona: la nostra « via » Gesù Cristo il quale si dona al Padre e ai fratelli.
Io non devo andare oltre i limiti di sopportazione della vostra pazienza e mi limito ad alcune esemplificazioni del significato di questo momento della preghiera in cui si realizza la nostra persona.
Il primo a cui dobbiamo donarci è colui dal quale abbiamo accolto tutto: « siamo » di Dio, ma lo dobbiamo « diventare »; da uno stato ontologico dobbiamo passare a una attuazione esistenziale che coinvolge le nostre facoltà e la loro attività: si matura così la nostra consacrazione a Dio.
Sulla nostra strada incontriamo i nostri fratelli, i figli del Padre. La preghiera ci fa uscire dall’equivoco: l’impegno di essere del Padre deve concretizzarsi nella disposizione, frutto di grazia e di sforzo, ad essere per i suoi figli. San Giovanni è categorico: « se uno dicesse: – io amo Dio e odia il suo fratello, è un bugiardo, perché chi non ama il suo fratello, che vede, non può amare Iddio, che non vede » 32
Come al Padre dobbiamo andare per Cristo, con Cristo, in Cristo, così è per i nostri fratelli: dobbiamo donarci come e quanto si è donato Cristo; dobbiamo donarci in quanto siamo arricchiti di Cristo e nella misura in cui viviamo di Lui.
Non dimentichiamo che siamo immersi nell’universo delle creature di Dio; la preghiera è il momento forte e lucido nel quale noi poniamo le condizioni per la loro liberazione 33 : acquistiamo il senso sacerdotale del nostro dominio sulle creature, le quali attendono di essere scoperte, promosse al servizio dell’uomo; di entrare nell’ambito della nostra esistenza cosciente per diventare espressione della lode della gloria del Creatore.
I canti ispirati della Sacra Scrittura sono una indicazione molto chiara di come tutte le creature devono essere associate alla lode che dal cuore dell’uomo sale al Dio dell’universo.
L’uomo che prega davanti al creato e nel creato è come il direttore d’orchestra davanti allo spartito: egli vale nella misura in cui è capace di interpretarlo e di farlo rendere dagli esecutori che ubbidiscono ai cenni della sua bacchetta.
Questa immagine si presta a rilevare un altro aspetto eminentemente personale della preghiera: la stessa opera, con gli stessi strumenti, nell’ambito di una oggettiva fedeltà, è diversamente interpretata e diversamente resa da ciascun direttore; essa passa attraverso il grado della profondità di intuizione, di sensibilità, di espressività propria della sua persona; la varietà delle ricchezze di un capolavoro sono evidenziate dalla personalità di chi lo interpreta. Così la preghiera in questo momento di ritorno al Padre, di disponibilità ai fratelli, di sacerdozio dell’universo, in Cristo e nello Spirito è anche un momento unico, inconfondibile e mai esaurito della personalità di ciascuno.
Quando la preghiera è una espressione di vita, è tanto personale come è personale Dio che si dona, come sono personali il suo amore e le espressioni del suo amore, come sono personali il numero dei talenti e la misura della grazia di cui ognuno è dotato; a mano a mano che la preghiera si approfondisce emerge l’inconfondibile fisionomia di ogni persona, perché ogni talento trafficato e ogni grazia corrisposta è un passo avanti verso l’immagine e la somiglianza che il Padre ha concepito e disposto per ogni figlio.
la persona è comunione
Coraggio! ci resta l’ultimo e definitivo momento della preghiera nel quale raggiungiamo il compimento di noi stessi: la comunione.
« Quel che noi abbiamo visto e udito, lo annunciamo anche a voi, affinché voi pure siate in comunione con noi. Ma la nostra comunione è col Padre e col suo Figlio, Gesù Cristo ». 34
Dio non sarebbe Padre, Dio non sarebbe Figlio, Dio non sarebbe Spirito Santo, se i tre non comunicassero in uguale misura a un’unica sapienza, ad un’unica potenza, a un unico amore infinito. Ancora una volta, balbettando, tentiamo dì dire cose indicibili; la comunione di vita delle divine Persone è il vertice e l’abisso della loro distinzione e della loro unità. Posseggono tutto totalmente, tutti e tre, e nessuno esclude l’Altro.
Adoriamo la sovrana libertà dell’amore infinito di Dio che nell’eterno proposito della sua volontà ci introduce in una vita di comunione con la comunione della sua vita.
Sostiamo a lungo nella preghiera, domandiamo la intelligenza che viene dallo Spirito, 33 riposiamo nella visione della sua luce e diamo tempo alla grazia di maturare le nostre disposizioni profonde. Il Padre è nostro, il Cristo è nostro, il mondo della grazia è nostro, il mondo della creazione è nostro; ma di tutti e di ciascuno senza esclusione di nessuno.
Esiste un momento della vita della Chiesa in cui la comunione è un avvenimento sacramentale, il quale esprime nel modo più alto e produce nel modo più efficace ciò che contiene: la comunione eucaristica. Tutti siedono alla mensa del Padre, tutti sono fratelli, tutti mangiano dello stesso pane e tutti bevono allo stesso calice. Questo momento sacramentale è il vertice e la sorgente dell’autentica esistenza di tutte le persone, le quali sono se stesse, per il fatto che hanno un unico Padre, sono fratelli tra di loro, siedono all’unica mensa di tutti i beni di Dio e non mangiano il « loro » pane, ma « condividono » un unico pane. Questo è il momento più pieno della preghiera cristiana, questo è il momento in cui ognuno è se stesso perché è figlio dell’amore del Padre, è fratello di tutti coloro di cui il Figlio è primogenito, è amico nella comunione con tutti nello Spirito Santo. Amen!
Questo ultimo aspetto avrà un ulteriore sviluppo nella meditazione sulla vita comunitaria.
1) K. Rhaner Saggi di spiritualità, edizioni paoline, pag. 333 SS.
2) cf Gv 14,6.
3) Gv 14,9.
4) Gv 14,6.
5) cf Mt 11,27.
6) cf Gai 6,15.
7) cf Ef 1,7.
8) cf Rm 8,26.
9) cf Ebr 1,3.
10) cf Col 1,16.
11) cf Ef 1,10.
12) cf Col 1,28.
13) cf Ef 4,7 e 13.
14) cf Ebr 10,9.
15) 1£ 23,46.
16) Gv 15,5.
17) cf Filip 3,9.
18) cf Col 1,13.
19) cf Lc 15,20 55.
20) cf Col 1,15.
21) cf Rm 8,29.
22) cf Col 1,18.
23) Rin 8,32.
24) cf Mt 6,26-29.
25) cf Si 24,1.
26) cf I Cor 6,23.
27) Daniélou, La trinité e le mystère le l’existence, Desclee De Brouwer, cap. I, 3.
28) cf Mt 10,40.
29) cf Mt 25,40.
30)1 Cor 4,7.
31) Manzoni, Promessi Sposi, cap. III
Sesta meditazione
Nel cuore della presenza di Dio
Eucarestia: Dio con noi
Il catechismo, con una formula molto asciutta ci insegna: « Dio è in cielo, in terra, in ogni luogo ». Di per sè, per attuare la nostra preghiera, qualsiasi luogo e qualsiasi tempo è adatto, ma la Rivelazione ci dice che ci sono dei luoghi privilegiati nei quali Dio vuole incontrarsi con gli uomini.
Questi luoghi privilegiati nell’Antico Testamento sono stati ricapitolati nel Tempio. La presenza di Dio raggiunge il suo culmine, come concretizzazione del tempo e del luogo, nella persona di nostro Signore Gesù Cristo.
Gesù Cristo al termine della sua vita su questa terra, ha assicurato di essere con la sua chiesa per sempre e ha dato indicazioni precise secondo le quali siamo certi della sua presenza operante in mezzo a noi.
Il Concilio al numero sette della Costituzione sulla Sacra Liturgia dice che: « per realizzare un’opera così grande – quale è glorificare il Padre e santificare gli uomini -, Cristo è sempre presente nella sua chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. E’ presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche.
E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, in modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza.
E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura.
E’ presente infine quando la chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là io sono, in mezzo a loro” ».1
Specialmente dopo questa ed altre affermazioni del Concilio si è verificato un certo fenomeno in mezzo a noi. Prima era evidenziata, quasi unicamente, la presenza di Gesù Cristo sotto le specie eucaristiche, oggi si evidenziano tutti gli altri modi di presenza di Gesù Cristo nella sua chiesa, con la tendenza a trascurare questo luogo e questo tempo della sua presenza che è il mistero eucaristico. Si insiste specialmente a considerare la presenza di Gesù in mezzo alla comunità. Dobbiamo riportare le cose al giusto equilibrio; dobbiamo essere illuminati nella nostra fede su tutti i modi con cui Gesù Cristo è presente nella sua chiesa. Questa sera ci tratteniamo sulla preghiera eucaristica con una appendice sulla preghiera mariana.
La preghiera eucaristica. Il concilio mette in evidenza tutti i modi con cui Gesù è presente nella sua chiesa, ma poi precisa « soprattutto sotto le specie eucaristiche » : non solo nella celebrazione eucaristica, ma « sotto le specie eucaristiche ».
Quando Carretto è stato ultimamente a Mantova, ha colpito riportando la sua esperienza di uomo del deserto. Non è che Carretto faccia testo… però è una persona che ha una esperienza e che per questa sua esperienza può dire qualche cosa, può darci qualche indicazione. Avendo parlato della preghiera, ha insistito sul privilegio, che esiste nella chiesa, di avere una certezza sacramentale, a cui è legata la fedeltà di Dio, che hic et nunc, dove ci sono le specie eucaristiche è presente Dio, e non in un modo fantastico o immaginario, ma vero e reale, perché lui stesso ha voluto legarsi a questo mezzo per essere presente in mezzo a noi. Siamo quindi sicuri di essere alla presenza « corporale » del Figlio di Dio e di tutto il mistero di Dio, perché il Figlio non è solo, è attualmente amato dal Padre nella comunione dello Spirito.
Diceva ancora una cosa che si può più o meno approvare: il suo bisogno (quando era nel deserto) di accostarsi anche materialmente alle specie eucaristiche, per realizzare una vicinanza anche spaziale con la maestà di Dio. Che sia necessario accorciare gli spazi fisici tra la presenza di Dio e noi, non so, comunque è un fatto che portiamo con noi la nostra sensibilità, i nostri sensi, e se questi ci possono essere di aiuto, è bene impiegarli nella preghiera. Questo può servire nella misura in cui agisce lo Spirito di Dio in noi. Voler scegliere un metodo di preghiera piuttosto che un altro e volerlo indicare agli altri è cosa delicata, bisogna andare adagio, perché se non è il metodo scelto dallo Spirito non serve per incontrare Dio.
Ci sono certamente delle età o dei momenti della vita spirituale in cui il sensibile può avere una tale importanza da condizionare addirittura la nostra possibilità di pregare. Ci sono dei momenti; invece, in cui siamo perfettamente liberi di impegnare noi stessi senza aiuti esteriori.
una presenza personale
Ma ritorniamo a noi: nel sacramento eucaristico c’è la presenza di Dio. Insisto a dire la presenza di Dio, perché, come abbiamo detto, le divine Persone sono infinitamente distinte, ma altrettanto unite. Di per sé, il segno del pane e del vino ci dice la presenza di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, ma le divine Persone non si separano mai. Gesù sa e dichiara di non essere lasciato solo, 2 come lui non lascia solo il Padre. Tra il Padre e il Figlio è presente necessariamente lo Spirito Santo. Quindi tutto il mistero di Dio è presente.
Se c’è un difetto, nella nostra presentazione del mistero eucaristico, è di ridurlo a quella anatomia di cui ha una certa responsabilità il catechismo: « sotto le specie del pane e del vino contiene realmente il corpo, il sangue, l’anima, la divinità di nostro Signore Gesù Cristo, per il nutrimento delle anime ». Nel mistero eucaristico c’è Gesù in persona e, con la persona di Gesù, c’è la persona del Padre e la persona dello Spirito Santo.C’è tutto il mistero di Dio non anatomizzato, ma vivo, attuale, attivo.
Questo si realizza liturgicamente attraverso le espressioni stesse della celebrazione, durante la quale il Padre ci dona il Figlio per dimostrarci il suo amore, il Figlio ci dona se stesso per operare la nostra redenzione, il Padre e il Figlio ci donano lo Spirito Santo perché si compia il nostro passaggio dalla morte alla vita nel mistero della Pasqua; ma anche al di fuori della celebrazione liturgica, il Padre non è inerte, non ci sospende il suo amore; Gesù Cristo continua ad essere presente con l’amore con cui si è sacrificato per noi, ha attualmente nel suo cuore lo stesso amore di quando è morto in croce.
Con una sola oblazione Gesù Cristo ha consumato tutti i sacrifici ed è in questo atteggiamento oblativo, il quale dura in eterno, che è presente hic et nunc, sotto i segni sacramentali nella eucaristia. Anche lo Spirito Santo che è attivo nella chiesa a illuminare, a corroborare, a unificare, è presente ed è attivo nella eucaristia e diffonde la carità nei nostri cuori.
eucarestia e parola
Capite, perciò, quale incontro sia quello con Dio, nel mistero eucaristico! Capite allora come sia facilitata e potenziata la nostra preghiera, in quanto è incontro con Dio per ascoltarlo, per accoglierlo, per donarci a lui, e, per amore suo, donarci ai nostri fratelli.
La pratica della recita del breviario davanti al santissimo Sacramento, per es., deve essere inculcata ma anche compresa bene. Non è che la recita distratta del Breviario davanti al tabernacolo diventi magicamente una preghiera preziosa. La recita dei Salmi, la lettura della Parola di Dio, la -loro meditazione alla presenza di Gesù nella eucaristia, devono essere uno stare alla presenza sacramentale di tutto il mistero di Dio, così che tutto ciò che Dio ha detto, tutto ciò che Dio ha compiuto, tutto ciò che Dio ha preparato, è detto, compiuto, voluto dal Dio che è presente qui, adesso.
Certo, non dobbiamo materializzare queste nostre espressioni, ma dobbiamo prenderle secondo la fede. Secondo la fede hanno una loro validità, una loro pienezza inesauribile. Non dico che in certi momenti non si possa pregare meglio all’aperto, con un amico, in mezzo alla comunità, però, oggettivamente, come direbbe Don Marmion, nel santissimo Sacramento c’è tutta una serie di realtà innegabili che, personalizzate, trasformano la preghiera, la rendono più viva, direi, quasi drammatica, a condizione di immergerci nella realtà di ciò che accade, se ci mettiamo nelle disposizioni giuste e volute dal mistero di Dio così « ravvicinato ».
Delle adorazioni eucaristiche, del rito della benedizione col santissimo Sacramento ne abbiamo fatto di tutto. Ridimensioniamo le cose, ma nel senso giusto. La chiesa, nelle istruzioni sulla liturgia, dà la disposizione di non disgiungere mai il culto della eucaristia dall’ascolto della parola di Dio.
La chiesa che non disgiunge gli atti liturgici del culto eucaristico e della proclamazione della Parola di Dio, vuole impegnare la nostra fede alla presenza di Dio e ad ascoltarlo. Il Concilio nella costituzione « Dei Verbum », auspica che, come c’è stato un grande risveglio della vita cristiana dalla frequenza al banchetto eucaristico, così anche dalla mensa della parola maturino frutti più abbondanti. « In tal modo dunque, con la lettura e lo studio dei sacri libri la Parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata e il tesoro della Rivelazione, affidato alla chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall’accresciuta venerazione della Parola di Dio, che “permane in eterno” ». 4
Noi mantovani non dimentichiamo che l’ora di questo risveglio coincide con le intuizioni, le sollecitudini e l’azione di Pio X, il quale non ha promosso soltanto la comunione frequente, ma ha indicato nella liturgia la fonte della vita cristiana più genuina.
Una parola sulla preghiera mariana. Anche questa preghiera rischia di scadere, perché noi andiamo avanti parecchio per sentito dire, per impressioni, e proprio oggi che c’è una rivalutazione della teologia mariana da parte dei protestanti e dei migliori teologi del Concilio. Mi riferisco in particolare a Laurentin: 5 gli fanno dire cose che non dice, o per lo meno non si mettono in evidenza tutte le cose estremamente positive che egli dice sulla teologia mariana. Ricordo che, commentando il capitolo ottavo della « Lumen Gentium », sottolinea con insistenza la corresponsabilità di Maria nel mistero della Incarnazione: secondo la teologia dei Padri « mente prior concepit quem corpore peperit ». Il mistero della Incarnazione si è compiuto in lei per adesione della sua cosciente e libera volontà.
Il legame con il Figlio di Dio fatto uomo, per una reale maternità, fa sì che Maria non sia una persona qualsiasi nella chiesa: come ha una funzione nel mistero della Incarnazione, così ha una funzione nella chiesa.
Io non mi affannerei a sostenere determinate affermazioni o nuovi dogmi, ma voglio sostenere con tutte le mie forze, il posto, il ruolo, quindi la funzione di Maria nella storia della salvezza e di conseguenza il bisogno che abbiamo di lei e la necessità di avere dei rapporti con lei, la quale entra ormai necessariamente nel circolo dei rapporti delle divine Persone.
Maria ha dei rapporti con Dio che sono indistruttibili (bisognerebbe distruggere il mistero della Incarnazione!), singolari, unici, irripetibili. Non possiamo ignorarla e anche il nostro incontro con Dio non può prescindere da un rapporto con Maria Santissima.
Il migliore rapporto è quello che la chiesa ha sempre proposto e che ha la sua indicazione nel testo rivelato: « ecco il tuo figlio… ecco tua madre » 6 Senza forzare il senso di queste parole, ma prendendole realisticamente: forse che Giovanni è unico nella chiesa? E’ unico come ogni persona è unica. Riservare a lui un privilegio farebbe, in un certo senso, ingiuria a Dio. La Madonna è stata assunta a partecipare al mistero della Redenzione operata da nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza di tutti, non solo di Giovanni.
Allora noi possiamo pensare ad una maternità soprannaturale della Madonna e non dobbiamo avere paura di cadere nel sentimentalismo, perché, se crediamo alla paternità di Dio, sappiamo anche che ogni paternità (capitemi bene!) ha bisogno della complementarità della espressione materna. E’ Dio che si manifesta agli uomini, e Dio che si manifesta vuole stabilire dei rapporti con essi nella totalità dell’amore, nella totalità delle espressioni dell’amore. Qui è il posto di Maria. Non dobbiamo ignorare questo posto, anzi, lo dobbiamo accogliere con gioia.
Mi permetto di dire qui un pensiero che mi è abituale. Noi sacerdoti, nei riguardi della donna, dobbiamo avere dei rapporti di ministero inevitabili, fatti di rispetto, di riguardo, accompagnati da tutti quei sentimenti buoni, naturali, spontanei, come quando pensiamo alla nostra mamma o alle nostre sorelle; ma poi c’è una zona oltre la quale abbiamo deciso di non andare; tuttavia rimaniamo uomini e abbiamo bisogno proprio di ciò che offre la donna: possibilità di apertura alla fiducia, alla confidenza, all’accoglimento nei momenti duri e tristi di scoraggiamento, di difficoltà e anche di sbandamento; abbiamo il dovere di dare ai nostri sentimenti virili la funzione della solidità su cui la donna può contare.
Se in noi c’è l’abitudine a ricorrere a Maria santissima, se Maria è una persona presente nella nostra vita spirituale, se essa ha il suo posto, noi ce la sentiremo accanto in tutti i momenti della nostra esistenza, non ci sentiremo soli, non prevarrà la tentazione di cercare ciò a cui lucidamente abbiamo rinunciato; avremo il discernimento per capire ciò che dobbiamo dare e ciò che non possiamo dare.
1) S.C. 7.
2) cf Gv 8,16; 10,30; 10,38.
3) cf Ebr 10,14.
4) D.V. 26.
5) R. Laurentin, La Vierge au Concile, P. Lethielleux, 1965.
Gv 19,27.
Settima meditazione
L’estrema misura dell’amore di Gesù
La giornata di oggi, anche secondo le vostre indicazioni, la dedichiamo alla penitenza. Per introdurci in questo tema ed entrarci nel vivo, è indispensabile riferirsi alla passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo.
Stanno certamente davanti a noi il peccato e i nostri peccati per i quali dobbiamo fare penitenza. Ma se prima dei nostri peccati e prima della nostra penitenza non ci fossero la passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, sarebbe tutto vano: sarebbe inutile lo sforzo di liberarci dai nostri peccati, sarebbe inutile cercare di portare nella nostra vita una stabilità per mezzo della penitenza. Era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse e morisse perché fosse liberato il peccato dalla sua radice e perché il peccato fosse tolto dal mondo.1
Come per altri temi della nostra vita religiosa, anche a proposito della penitenza dobbiamo cercare il punto di equilibrio.
colui che risorge era morto
Prima che prendesse consistenza il movimento liturgico, prima del Concilio, Gesù Crocifisso, la passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo avevano una tale preminenza da far dimenticare il compimento di questo mistero che si esaurisce nella risurrezione di Gesù Cristo. « Sarebbe vana la nostra fede » 2 e sarebbe vana anche la passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo se egli non avesse dimostrato di essere il padrone della morte e della vita risorgendo da morte.
Ma non dobbiamo cadere in un altro eccesso: valorizzare talmente la risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo da dimenticare la sua passione. E’ un unico mistero, è la sua pasqua, è il passaggio dalla morte (e quale morte !) alla vita. Alla vita che Gesù è venuto a portare su questa terra non si arriva se non per la morte. Teniamo « fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, il quale, in vista della gioia che gli veniva offerta si sottopose alla croce ». 3
Perciò impegniamo la nostra fede, la nostra speranza, i nostri sentimenti per accostarci a Gesù sofferente e preghiamo Maria santissima, la madre che sta accanto al Figlio che muore in croce, di farci entrare nella comprensione del mistero del dolore che ha sopportato il Figlio suo, Gesù nostro Salvatore.
il servo sofferente
La passione e la croce dominano tutta la esistenza terrena di nostro Signore Gesù Cristo, anzi, c e un antècedente profetico, quello dell’Antico Testamento.
Il tema del servo sofferente era nel patrimonio e nella coscienza religiosa del popolo di Israele. Colui che avrebbe salvato i suoi fratelli con un atto di obbedienza e di amore verso di essi, era il servo che caricato delle iniquità dei propri fratelli sarebbe stato talmente calpestato, sfigurato, annientato da non avere più le sembianze di una creatura umana. 4
Questo era stato predetto con tutta chiarezza. Questi sarebbe stato il Salvatore, il Liberatore del popolo di Israele.
Quindi davanti a Gesù, nella sua coscienza, è chiaro tutto il disegno del Padre che sceglie lui come autentico servo per questo servizio doloroso, ignominioso, umiliante, annientante, per portare la salvezza al mondo, per togliere il peccato dal mondo.
San Paolo ci rivela i sentimenti con i quali il Verbo incarnato entra nel mondo: « non hai più voluto ostie e sacrifici e mi hai dato un corpo. Ecco, o Padre, vengo per fare la tua volontà ». 5 Il Verbo entra in questa sua umanità per associarla al compimento della volontà del Padre, il quale vuole la nostra salvezza attraverso il sacrificio.
Noi dobbiamo pensarci. Quando Gesù bambino prende misteriosamente coscienza della sua missione, prende anche coscienza di andare verso la passione e morte. Soltanto più tardi, durante la vita pubblica, Gesù incomincerà a dire con chiarezza che sarebbe salito a Gerusalemme, che i suoi nemici lo avrebbero catturato, schiaffeggiato, messo a morte e che il terzo giorno sarebbe risuscitato. 6 Gli apostoli si ribellano, non vogliono. Sapete la reazione di Gesù di fronte alla resistenza di Pietro: lo allontana come un inciampo, perché egli deve compiere la volontà del Padre, deve compiere l’opera che il Padre gli ha affidato: la salvezza dei suoi fratelli.
Quando Gesù si presenta ufficialmente in pubblico, al Giordano, ed è indicato da Giovanni alle folle, è presentato in questa sua missione di Agnello che viene per togliere i peccati del mondo. Nel contesto in cui Giovanni predicava, dove i peccatori di qualsiasi genere andavano per ricevere il battesimo di penitenza, questa indicazione ha un significato molto preciso: « questi è colui che verrà dopo di me, a cui non sono degno di sciogliere i lacci dei sandali… ecco colui che toglie il peccato dal mondo ». 7 « Ecco l’Agnello di Dio »: è la evocazione di un tema biblico molto chiaro ed esplicito, non sappiamo se compreso, e quanto, da quelli che ascoltavano.
E’ un grande mistero questo: che nella coscienza di Gesù ci fosse viva la visione della sua passione e morte e tuttavia nel Vangelo non ci incontriamo in una persona triste, abbattuta, scoraggiata. Verrà anche questo momento, ma abitualmente, Gesù sostiene questa visione con la forza del suo amore e con la serenità di fare la volontà del Padre. L’amore che porta al Padre e conseguentemente l’amore che porta a noi, gli fanno abbracciare con gioia la croce, prima che arrivi.
Poi, il momento della passione arriva.
Ognuno, per conto proprio, richiami i momenti della passione di Gesù, i diversi episodi come sono narrati dagli Evangelisti.
il paradosso della sofferenza
Noi dobbiamo fare uno sforzo per ravvivare la nostra fede, e direi la nostra sensibilità, dinanzi alla passione di Gesù così come ci è descritta nei particolari dagli Evangelisti. C’è il pericolo di essere troppo abituati al racconto della passione e considerarlo un fatto ormai assegnato alla storia. Poi, soprattutto, c’è il pericolo di una certa ripugnanza a pensare alla sofferenza, oggi, nel nostro mondo, proteso verso il benessere e il conforto.
Noi, con una visione più o meno cristiana dei valori della civiltà, facciamo fatica a far coincidere i problemi sociali con quelli religiosi e il mistero della croce accentua la nostra difficoltà per essere lealmente umani e autenticamente cristiani; possiamo essere bloccati da queste apparenti contraddizioni: benessere e sofferenza, dovere di promuovere il benessere e la sofferenza da togliere; ma c’è il pericolo di dimenticare che la passione di nostro Signore Gesù Cristo toglie la causa della sofferenza del mondo: il peccato.
Vedere con chiarezza in questi termini antitetici, in queste proposte che sanno di paradosso è difficile. Perciò la passione del Signore potrebbe anche non dirci tutto quello che è destinata a dire, e alla passione del Signore rischiamo di dare meno attenzione di quanto noi le dobbiamo, come è richiesto dalla nostra vita spirituale e per l’autenticità del nostro cristianesimo.
Possiamo diventare quei tali di cui parla san Paolo: « che vivono da nemici della croce di Cristo… il loro Dio è il ventre » 8 In questo pericolo ci siamo più oggi di quanto non ci si potesse trovare venti o cinquanta anni fa, quando il benessere non era ancora un mito; benché sia sempre esistita l’aspirazione per i beni materiali, essi non si apprezzano mai tanto come quando si hanno, anche se poi deludono; fin tanto che sono solo nel desiderio può sussistere ancora tanto di sensibilità da essere aperti alla sofferenza degli altri, e, tra gli altri, nostro Signore Gesù Cristo; quando invece i beni terreni sono a portata di mano, e si godono, scende una patina sul nostro cuore e sulla nostra sensibilità che ci impedisce di partecipare alla sofferenza degli altri, quindi anche ai dolori di Cristo.
La sofferenza turba, ripugna; per comprendere la sofferenza, per valutarla, amarla, e, quando viene, per abbracciarla è necessario penetrare in quell’autentico mistero che è la malizia del peccato da una parte e la capacità che racchiude l’amore di essere più forte e più valido di qualsiasi malizia, dall’altra: il mistero dell’egoismo e il mistero dell’amore.
Dunque: fermiamoci, ognuno per proprio conto, secondo le proprie disposizioni, tutti pregando perché lo Spirito ci introduca nella verità, nel realismo di questo mistero di Gesù sofferente, dietro cui risuona: « Così Iddio ha amato il mondo » e « perché il mondo conosca che io amo il Padre » e « ha amato me e ha dato se stesso per me ».
Don Marmion, devotissimo della passione di nostro Signore Gesù Cristo, è stato uno dei primi, nei tempi moderni, a scrivere del valore della risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Don Marmion praticava tutti i giorni dell’anno, ad eccezione del giorno di Pasqua, la « via crucis »; egli propone queste domande per una meditazione fruttuosa su Gesù che soffre: che cosa soffre; chi è colui che soffre; per chi soffre.
Chi è che soffre: è Gesù, l’uomo perfettissimo, dall’equilibrio maturo, dalle facoltà integre, quindi sensibile, con tutta la capacità di percepire la sofferenza, come ha tutta la capacità di percepire la bellezza, la bontà, la sofferenza degli altri. Gesù non è mai indifferente. Coglie tutti gli aspetti del mondo che noi non vediamo e quelli che anche noi vediamo e li vive con una intensità unica e li partecipa nella pienezza più profonda.
Che cosa soffre Gesù: tutto. Non c’è una zona del suo corpo, del suo spirito, che non abbia avuto la sua sofferenza: l’abbandono, il tradimento, l’indifferenza, l’odio, l’ingiustizia, l’umiliazione, le membra dilaniate, maltrattato da gente grossolana come uno schiavo, come un verme che si calpesta nella polvere. Gesù soffre tutto e con tutto se stesso.
Per chi soffre Gesù: soffre per noi, soffre perché si compia la volontà del Padre e perché nel mondo ci sia la testimonianza dell’amore di Dio; soffre per noi quando ancora siamo i suoi nemici, quando ancora siamo peccatori. 9
obbediente per amore
La passione di Gesù è un atto di obbedienza. Cristo ha subito la passione per obbedire al Padre: obbediente fino ad annientare se stesso. Ricordate il passo di san Paolo che ritorna durante la liturgia della settimana santa: « Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce ».10
L’obbedienza di Gesù è un atto di amore:« perché il mondo conosca che io amo il Padre, ecco, io vado » 11 : va verso la passione, verso la morte, va a fare la volontà del Padre, « non la mia ma la tua volontà sia fatta », 12 fino all’ultima goccia « consummatum est » 13 La volontà del Padre è la nostra salvezza.
Se il peccato è essenzialmente un atto di disubbidienza, Gesù ritorce il peccato nella sua obbedienza: in questa obbedienza dolorosa che lo porta sulla croce a morire per amore del Padre. E’ l’amore di Dio, l’amore del Padre e del Figlio animato dallo Spirito Santo, perché Gesù è condotto dallo Spirito Santo, dallo Spirito del Padre e dal suo Spirito ad abbracciare la morte per amore. Dobbiamo credere che l’amore di Gesù è sulla continuità dell’amore del Padre, il quale vuole la nostra salvezza in questo mistero di sofferenza: non c e amore più grande di quello che si manifesta attraverso la sofferenza, la sofferenza di chi è capace di dare la propria vita per coloro che ama. 14
L’amore di Gesù per il Padre si incontra con l’amore del Padre per noi che ci vuole salvi. A questo prezzo, a questa prova di amore noi sappiamo di essere salvi. L’obbedienza diventa un atto di amore verso il Padre e verso noi.
Perché tutta questa sofferenza? Perché, se non ci fosse stata, forse noi non avremmo creduto che Dio ci ama. I teologi fanno delle questioni: sarebbe bastato un atto di amore da parte di nostro Signore Gesù Cristo per cancellare tutti i peccati, sarebbe bastata una lacrima, una goccia del suo sangue. Sono questioni. I criteri di Dio sono altri: non poteva fare di più perché ha dato il suo Figlio attraverso la più grande sofferenza, quindi l’amore di Dio per noi che siamo peccatori, è sicuro e senza limiti.
Ricordiamo che l’amore di Dio non è un amore generico, è un amore personale, è un amore che termina a ogni persona, la quale dinnanzi a lui sta infinitamente distinta da qualsiasi altra. Difficilmente possiamo comprendere che ogni persona sta davanti a lui come se fosse unica al mondo. E’ la verità che san Paolo esprime per se stesso: « ha amato me e ha dato se stesso per me ». Ciò che Gesù ha sofferto è un atto di amore per me, indipendentemente da tutti quelli che sono venuti, che sono e che verranno dopo di me, in questo mondo. Solo così l’amore di Dio è l’amore di un Dio personale. Questo è l’amore di Dio che pesa su di noi.
San Giovanni che era stato vicino a Gesù nella sua passione, che era stato più di qualsiasi altro vicino al momento della sua morte, può proclamare: «e noi abbiamo creduto all’amore», 16 l’amore che Dio ci ha manifestato attraverso la morte del suo Figlio.
Come ognuno di noi deve prendere sul serio l’amore di Dio!
Prendete in mano il Vangelo e fate ciò che lo Spirito e le vostre disposizioni vi suggeriscono, ma rimanete in questi pensieri che avranno poi un loro svolgimento nella celebrazione della penitenza, che faremo in luogo della seconda meditazione.
1)cf Lc 24,26.9)Rm 5,8.
2) 1 Cor 15,14e 17. 10) Filip 2,8 Ss.
3)Ebr 12,2.11)Gv 14,31.
4)cf Is 52,15e 53.12)Mt 26,42.
5)cf Ebr 10,5SS..13)Gv 19,30.
6)cf Mt 16,22ss.14)cf Gv 15,13.
7)cf Gv 1,27Ss.15)GaI 2,20.
8)Filip 3,19.16)I Gv 4,16.
Ottava meditazione
La nostra risposta all’amore
Stando a quello che ci riportano gli Evangelisti, Gesù parecchie volte ha preannunciato esplicitamente la sua passione e morte. 1 Una di queste volte i discepoli non osano interrogarlo, anzi Pietro protesta e per tutta risposta si sente dire: « va lontano da me Satana !… non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini », 2 Come sia rimasto Pietro e i discepoli non lo sappiamo; sappiamo la difficoltà dei discepoli ad intendere il linguaggio di Gesù. Ma al tempo in cui gli Evangelisti le hanno registrate, queste parole avevano un significato molto chiaro. La nostra croce e la croce di Gesù sono un fatto inscindibile. Prendere la croce è la condizione indispensabile per seguire Gesù, andare dove va lui, il quale va ad immolarsi per la nostra salvezza, in un atteggiamento, non dimentichiamolo mai, di obbedienza e di amore verso il Padre e per noi.
crocifissi con Cristo
Come Gesù sia esigente a questo proposito lo sappiamo sempre dal Vangelo e dalla predicazione apostolica: « se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » 3, « chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me », « chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me »; « chi tien conto della sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà » 3; « va, vendi quello che hai, vieni e seguimi ». 4
La predicazione apostolica, specialmente san Paolo, ci porta il frutto di una riflessione teologica su questa esigenza di Gesù di partecipare alla sua croce. Noi per il battesimo, siamo configurati alla sua morte, siamo sepolti con lui per poter risorgere. 5 Il battesimo ci segna col segno della croce, non semplicemente per l’impressione tracciata sul nostro corpo, ma per il carattere interiore che ci configura a Cristo crocifisso.
Gesù aveva posto delle premesse per intendere la legge della croce quando ha detto: « se il grano di frumento non muore rimane solo, se invece muore porta molto frutto » 6 La vita, la pienezza della vita, la ridondanza della pienezza della vita, quindi la gioia nascono dalla morte: la morte a noi stessi per vivere in Dio, per vivere la vita che ci porta Gesù Cristo come frutto della sua morte e della sua risurrezione, « vivere per Dio in Cristo Gesù ». 7
Iddio esige l’annientamento di noi stessi. Di Gesù si dice « annientò se stesso ». 8 Annientamento del nostro io edificato dal peccato, per edificare al suo posto « l’uomo nuovo » 9; « vivo »:siamo quello che siamo; « ma non io »: siamo un altro; « vive invece Cristo in me ». 10 Per dare a Cristo la possibilità di fare di noi delle creature nuove, dei figli del Padre, è necessario che si compia questa distruzione dell’uomo del peccato, perché ci sia l’uomo della grazia, l’uomo della fede.
Così che, il rinnegare noi stessi, il prendere la croce, l’abbracciare il sacrificio, è costitutivo della vita cristiana, e deve essere tanto più costitutivo della esistenza di coloro che sono impegnati in mezzo ai fratelli per stabilire il regno di Dio. Perché in noi ci sia una pienezza di vita cristiana, perché la vostra vita cristiana sia feconda e produca molto frutto è indispensabile, non solo accettare, ma abbracciare la croce: fare della crocifissione di noi stessi uno stile di vita; crocifissi insieme con Cristo. 11
un discorso duro, ma inevitabiIe
E’ un parlare duro questo di nostro Signore Gesù Cristo, perché non è conforme alle esigenze della nostra natura umana, perché è difficile capire che, per affermare il valore della nostra persona e la dignità nostra di figli di Dio, bisogna passare attraverso questo crogiuolo del nostro rinnegamento, attraverso questa porta stretta e arrivare a bere il calice fino in fondo e a lasciarsi crocifiggere dalla volontà di Dio. E’ difficile capire che abbiamo un bisogno radicale di salvezza, che in noi non ce nulla di salvo e che ci salvi, su cui edificare una esistenza; che tutto deve essere dato perché ci sia ridato purificato nel sangue di nostro Signore Gesù Cristo. E’ difficile riconoscere, quindi, che solo l’opera di Dio, che egli compie attraverso il mistero della croce, ci porta alla salvezza e ci rende strumenti adatti per la salvezza dei nostri fratelli.
Noi, con molti pretesti, anche in buona fede, istintivamente, cerchiamo tutte le scappatoie per sfuggire a questa legge del sacrificio, del dono di noi stessi, della accettazione della salvezza attraverso la croce.
Ieri dicevamo: la persona è accoglimento, è dono, è comunione. E’, quindi, fare in noi il vuoto del nostro io per accogliere il dono di Dio, la sua grazia, la sua fede, il suo modo di vedere o di giudicare le cose, la sua energia, la sua forza soprannaturale, per essere in grado di donarci. Ma non donare noi stessi, così come siamo, nella nostra povertà, nella nostra miseria, nel nostro peccato, ma donare ciò che abbiamo ricevuto. Come nella santa Messa offriamo a Dio « de suis donis ac datis», così ai nostri fratelli offriamo ciò che riceviamo da Dio «de suis donis ».
Questa umiltà di accogliere la salvezza in noi, questo svuotarci, fare posto agli altri, esige un atteggiamento di fondo che è quello di nostro Signore Gesù Cristo. Se noi siamo le membra del corpo di nostro Signore Gesù Cristo, dobbiamo configurarci in tutto al Capo: « abbiate in voi quel medesimo sentimento ché fu in Gesù Cristo, il quale, pur essendo in forma di Dio, non stimò una rapina l’essere alla pari con Dio, ma annientò se stesso prendendo forma di schiavo, divenuto simile agli uomini; e, ritrovato nel sembiante come uomo, umiliò se stesso, divenuto obbediente fino a morte, anzi a morte di croce » 12
Questo atteggiamento di fondo è riassunto più brevemente da san Paolo nella lettera ai Romani: « Cristo non cercò di piacere a se stesso ».13 Non cercare ciò che piace a noi stessi. E’ duro ma non è impossibile. Va inteso bene, non per alleviarlo, per adattarlo, accomodarlo, ma perché c’è una volontà più intelligente, più retta, più buona, più interessata al nostro bene della nostra. Non cercare ciò che piace a noi stessi, ma cercare di piacere a Dio: « ciò che piace a lui faccio sempre ». 14 Si potrebbero fare tante applicazioni.
Non so se ci sarà il tempo di parlare in modo esplicito del tema della castità perfetta e perpetua. Indubbiamente la castità è un sacrificio, la castità perfetta e perpetua è il più grande sacrificio che possa compiere una creatura umana.
la crocifissione della castità
Non deve fare meraviglia ciò che accade nel mondo ecclesiastico e religioso di oggi. Ogni fenomeno ha la sua spiegazione. Fa meraviglia quando alcuni dicono che il celibato ecclesiastico non è valido perché impedisce la piena realizzazione di se stessi. Stiamo attenti. Non siamo facili a giudicare: la castità evangelica è un dono, 15 ogni dono esige un impegno di corrispondenza, però, ad un certo punto, bisogna porre il problema con molta chiarezza: « non sibi placuit ». Se non c’è questa accettazione di fondo, non si può giustificare il celibato, perché tutte le altre motivazioni, anche se sono motivazioni positive e buone, non tengono: il maggior bene degli altri, la maggiore disponibilità, ecc., da sole non tengono, se non c’è questa radice. Direte: ma questa radice deve essere in ogni cristiano. Si, ma non c’è dubbio che Gesù abbia esplicitamente chiesto, a chi ha voluto lui, una perfezione più grande; 16 che questa perfezione più grande l’ha chiesta a coloro che avrebbe mandato a continuare la sua opera, 17 che questa perfezione consiste nell’amore fino al punto di dare la vita per gli altri.
quella dell’obbedienza
« Non sibi placuit »: il tema dell’obbedienza. Non discutiamo le forme dell’obbedienza nell’ ambito ecclesiale o anche ecclesiastico. Le forme possono essere varie. Stiamo attenti quando combattiamo delle forme deviate, a non distruggere la sostanza.
L’obbedienza ha costituito l’atteggiamento dell’intera vita di nostro Signore Gesù Cristo.
La sottomissione alla volontà di Dio che si manifesta attraverso le situazioni e gli avvenimenti della esistenza, non si può togliere: si toglierebbe la croce, si toglie lo strumento della salvezza per noi e per gli altri, si vanifica la vita cristiana.
Ripeto: si può discutere sulle forme della obbedienza, ma non si può mettere in dubbio la sostanza.
La sostanza dell’obbedienza è la disposizione abituale ad accettare noi stessi e gli altri; perché se vogliamo che gli altri accettino noi, noi abbiamo il sacrosanto dovere di accettare gli altri; può darsi che siamo più pesanti noi da sopportare di quanto non lo siano gli altri per noi.
Obbedienza è accettazione in spirito di fede di tutto ciò che costituisce la trama della nostra esistenza, della nostra giornata, dalla legge del lavoro e della fatica, alla conseguente stanchezza. Vedete che la sottomissione alla volontà di Dio è penitenza e nello stesso tempo è crocifissione di noi stessi.
Non è necessario che ci siano i superiori per doverci trovare nella situazione di essere a disposizione degli altri e praticare così l’obbedienza. Possono esserci anche degli inferiori, per es., un bambino che dia l’impressione di farti perdere del tempo, che ti trattiene e vorresti andare perché hai altre cose importanti e intanto capisci che devi stare lì ad ascoltarlo. E’ sottomissione e penitenza.
Poi ci sono rapporti che si stabiliscono in un determinato ambito di vita, la vita ecclesiale, la vita ecclesiastica. Perché questi rapporti siano possibili è necessario che siano rapporti armonizzati e comportano necessariamente una sottomissione alla legge della convivenza, della comunità, la quale si definisce da ciò che è comune a tutti e che tutti devono rispettare anche a costo di rinunciare alle proprie esigenze.
E’ naturale rilevare i limiti delle persone che compongono una comunità, superiori o inferiori… non dico che questi limiti siano delle cose piacevoli, ma i limiti sono una cosa, le persone un’altra; i limiti si possono deprecare, le persone vanno accolte, « sopportate » con tutta bontà, dolcezza, pazienza, come esige la nostra vocazione. 19 Il Signore si serve anche dei limiti degli altri per santificare noi, perché la convivenza cristiana deve essere caratterizzata dal segno dell’amore vicendevole.
Se l’obbedienza non è una espressione di amore, di amore verso il Padre che sta nei cieli; se non è una espressione di amore riconoscente verso il Figlio, Gesù Cristo, che si è fatto obbediente fino alla morte; se non è una disposizione di amore verso l’amore di Dio che ci salva per mezzo dell’obbedienza del suo Figlio, non ci sono più motivazioni sufficienti per accettare la obbedienza.
Che si debba obbedire ad occhi aperti, vedendo la ragione di ciò che si deve fare, è auspicabile, tuttavia, a un certo punto, ci si può trovare in situazioni nelle quali, o vale l’amore per Iddio e per i fratelli o, altrimenti, nascono disagi, incomprensioni, insofferenza, ecc. L’obbedienza o è espressione di amore verso Dio e verso i fratelli, oppure non è una virtù cristiana.
Noi abbiamo troppa fiducia in noi stessi, nel valore delle nostre azioni, quando si pensa ai fratelli ai quali vogliamo fare del bene. Pensiamo di far loro del bene, per esempio, con il catechismo, con l’organizzazione, con l’attività pastorale; non pensiamo che tutto questo lo dobbiamo fecondare con il sacrificio di noi stessi, il quale non è semplicemente il sacrificio di stare con i bambini, di preparare la predica, di disporre gli altri a ricevere bene i sacramenti, ecc; occorre un sacrificio « personale » non « professionale ».
Quand’è che noi paghiamo ciò che vogliamo fare? Quand’è che impreziosiamo ciò che facciamo? Vedete come per garantire la nostra vita cristiana e per rendere autentica la nostra attività pastorale, sia indispensabile valutare le cose dal punto di vista della fede. Se diventiamo dei razionalisti possiamo essere dei buoni psicologi, buoni sociologi o buoni pedagogisti, ma non siamo nell’ambito della salvezza che vuole operare nostro Signore Gesù Cristo in noi e per mezzo nostro.
1)cf Mt 16,23; 17,22-2310)Gai 2,10.
Mc 8,31-33;ecc.11)Gai 2~19.
2)Mt 16,22-23.12)Filip 2,5-8.
3)Mt 10,37-39.13)Rm 15,3.
4)Mt 19,21.14)Gv 8,29.
5)Rm 6,3~.15)cf Mt 19.1.
6)Gv 12,24.16)Mt 19,12.
7)Rm 8,11.17)cf Gv 21,15.
8)Fiiip 2,7.18)Gv 15,13.
9)Ef 4,24.19)cf Ef 4,23.
nona meditazione
Erano un cuore solo e un’anima sola
Chiediamo alla Madonna un supplemento di grazia per questa ultima giornata del nostro incontro con Dio e tra di noi, e del nostro impegno di silenzio, di raccoglimento e di preghiera.
Fino a questo punto abbiamo fermato la nostra attenzione e la nostra riflessione sulla vita spirituale personale e, all’infuori di qualche accenno, non ci siamo fermati sull’aspetto comunitario della nostra vita. E’ quello che, con la grazia di Dio, vogliamo fare almeno in parte quest’oggi.
Per la nostra riflessione e meditazione, per la nostra preghiera riferiamoci al mistero di Dio, al mistero dell’unità delle divine Pèrsone, Padre, Figlio, Spirito Santo.
la comunità del Padre, del FigIio e dello Spirito Santo
Le Persone divine sono infinitamente se stesse e sono infinitamente unite, in un modo che sorpassa la nostra capacità di comprendere, e sono un Dio solo. Un Dio solo nel vincolo dell’amore, il quale impedisce, se così possiamo esprimerci, parlando di Dio, ad ognuna delle divine Persone di dire « mio » tutto è comune.
Gesù si esprime così: «la mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato:1 l’assenza di possesso egoistico. La scuola dice che in Dio tutto è comune: il Padre è infinitamente sapiente, il Figlio è infinitamente sapiente, lo Spirito Santo è infinitamente sapiente, ma non ci sono tre infinitamente sapienti, c’è una sola sapienza. Leggete, se lo avete tra mano, il Simbolo Atanasiano.
il progetto di Dio
Iddio, quando si manifesta al di fuori della sua vita intima, esprime se stesso: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » 2 Con questo atto, Dio, anche se la Scrittura ce lo presenta in successivi tempi, ha costituito la prima comunione di vita umana. Ha fatto l’uomo e la donna perché l’uomo e reciprocamente la donna non fossero soli e il loro amore non fosse qualche cosa che termina a se stessi, ma fosse un amore aperto ed espansivo che si ritrova nei figli. Ecco la prima forma di vita comunitaria, la prima comunità.
Questa comunione di vita, guastata dal peccato, viene ricostruita da Dio attraverso tutta la storia della salvezza. La preoccupazione di Dio è quella di costituire il suo popolo, cioè, persone che accettano di condurre una vita con legami vicendevoli. Con questo popolo Dio stabilisce la sua alleanza, cioè propone una forma di vita, quella della comunità e dà a questo popolo una legge. La legge costitutiva di questo popolo ha come fondamento la sovranità di Dio, la potenza di Dio, l’opera, l’amore di Dio e ha come esigenza i rapporti tra i membri di questo popolo, perché possano mantenere l’unità tra di loro. Il quarto comandamento ricostruisce, per così dire, la famiglia secondo il disegno primitivo di Dio, come comunità di amore; e così il rispetto della vita, il rispetto delle cose, il rispetto della sorgente della vita, il rispetto della verità nei rapporti con gli altri e dell’amore nei rapporti con gli altri. I comandamenti sono esplicitazioni delle esigenze
dell’alleanza.
Questo popolo è l’inizio dell’opera di Dio, è la figura di ciò che dovrà essere il nuovo popolo di Dio quando verrà la pienezza dei tempi; è figura del popolo nuovo, del nuovo Israele, il quale è definito dalla nota della unità, l’unità che nasce da un principio di vita e da una esigenza di esistenza nuova secondo la legge dell’amore.
La vita nuova che anima il popolo nuovo è quella che attraverso Gesù Cristo riceviamo dal Padre, per cui siamo suoi figli e perciò costituiamo l’unica famiglia dei figli di Dio. Il nostro battesimo ci fa risorgere a una vita nuova che non proviene dalla carne o dal sangue ma da Dio, «sono nati da Dio »3: siamo figli di un unico Padre e l’amore vicendevole deve essere la caratteristica dei nostri rapporti.
Tutto questo avviene per l’atto di riconciliazione che Dio opera per mezzo del sangue di suo Figlio 4: siamo riconciliati, siamo unificati con Dio e tra di noi, cade il muro di separazione che ci divide per il sangue di nostro Signore Gesù Cristo 5 e si compie la volontà del Padre che tutto sia unificato in Cristo. 6 Il nuovo popolo di Israele è la chiesa, Corpo di Cristo 7 e noi siamo le membra gli uni degli altri e come in ogni individuo ci sono molte membra ma un solo corpo, così è di noi. 8 Questa unità tra di noi è prodotta dallo Spirito, il quale costituisce il tempio santo di Dio cementandoci come pietre viventi di un solo edificio 9 per mezzo della carità che diffonde nei nostri cuori.
dove si eseguisce il progetto
La nota dell’unità è la nota fondamentale della chiesa. L’unità della chiesa è il fine che vuole raggiungere Dio e la via per la quale vuole che raggiungiamo la salvezza: la perfezione del legame con i nostri fratelli perché siamo figli di Dio, perché siamo membra di un solo corpo, perché siamo le pietre di un solo edificio, perché siamo i tralci di una unica vite, ecc. Perciò una vita autenticamente cristiana deve essere segnata dalla caratteristica della nostra origine di figli di Dio, dalla nostra vocazione all’unità nella carità, dalla perfezione del nostro amore vicendevole.
Noi quindi con tutta la nostra attività spirituale, crescendo secondo la misura della statura che ognuno di noi deve raggiungere, dobbiamo arrivare ad essere totalmente noi stessi nella piena comunione con gli altri. Così si raggiunge la pienezza della vita cristiana e anche la pienezza della nostra vita umana.
Oggi è molto sentito il bisogno della vita comunitaria a tutti i livelli, ma come dobbiamo concepire la comunità tra di noi nel senso cristiano? La dobbiamo concepire secondo la legge di Dio, che ha per fondamento la redenzione operata dalla passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, secondo la legge della croce che ci conferisce quella libertà che ci viene da Dio, il quale ci fece passare dalle tenebre al regno del suo amore; libertà di persone sciolte che possono muoversi speditamente verso il compimento del disegno di Dio, cioè verso il raggiungimento della unità nella carità.
Dobbiamo preoccuparci del nostro egoismo; l’egoismo che mette al primo posto il nostro « io »e il nostro « mio ». Altro è il dovere e l’impegno di essere se stessi e quindi di trafficare i talenti (la drammatica parabola dei talenti !) per essere veramente qualche cosa da offrire ai nostri fratelli; ricordate: apertura, accoglimento, sviluppo di tutti i nostri doni di natura e di grazia per diventare ogni giorno dono di se stessi, offerta di se stessi, disponibilità di se stessi, generosità. Altro è voler affermare il proprio io che è esclusione degli altri, che si mette in contrapposizione agli altri, al posto degli altri.
Qui è impegnato l’esercizio di una autentica umiltà. San Paolo si domanderebbe: che cosa sei, che cosa hai che non abbia ricevuto? La persona è accoglimento: ci viene tutto da Dio e perché te ne glori come se lo avessi avuto da te stesso ? 11
Liberazione dal nostro io, liberazione dall’egocentrismo che si esprime in possesso: « mio ». Noi vediamo all’inizio della storia del cristianesimo come i credenti sentono il bisogno spontaneo di mettere in comune i propri beni. Poi, a mano a mano che ci siamo allontanati dalle esigenze più autentiche della fede, abbiamo costruito una teologia, una morale, una sociologia per giustificare una certa proprietà privata.
Per carità non facciamo questioni: altro è il « dominio » delle cose, cioè avere a disposizione le cose: essere al di sopra; altro è il « possesso » delle cose: essere legati. Il possesso delle cose esclude gli altri; solo l’uso delle cose, il godimento delle cose può essere veramente comunitario. Non entriamo in complicazioni sociologiche. Riflettiamo guardando noi stessi e le nostre inclinazioni. Richiamo ciò che il Cardinale Pellegrino ha detto ai nostri sacerdoti: quanta disponibilità c’è in noi di mettere in comune i nostri soldi? C’è molta strada da percorrere, sia per essere veramente distaccati, sia per usare in comune le cose disponibili. Tra le due la più difficile è quella del distacco.
le fondamenta da scavare
Alla luce di queste riflessioni, come si impone all’evidenza che non si può essere perfetti nell’amore e testimoniare il Regno di Dio senza il distacco che operano la povertà, la castità e l’obbedienza!
Prendiamole sul serio queste cose per non parlare dilettantisticamente di vita comunitaria. Per lo meno prospettiamoci questi problemi e disponiamoci a compiere qualche passo concreto. Sarà il prestare un libro, sarà il disfarsi di una cosa cara. Guardate che adesso, che non possedete niente, tutto appare facile, domani le cose si faranno più complicate.
Il nostro egoismo possessivo riguarda anche le persone; questo non esclude le amicizie, anzi la vita comunitaria ha i suoi inizi in forme ristrette di amicizia; ma attenzione: quando in una amicizia fa capolino e poi si afferma la gelosia non c e più niente di comunitario.
L’educazione all’amore incomincia dalla amicizia. Una persona che non è capace di amicizia non è umana. San Paolo per bollare il disordine morale dei pagani, li definisce « privi di affezione », 12 gente senza cuore, incapace di affezionarsi.
L’amicizia che è sintonia di gusti, di modi di vedere, di aspirazioni, ecc., non deve essere soffocamento della personalità: ognuno deve rimanere se stesso.
L’amicizia deve servire ad essere più aperti verso gli altri : volere bene agli altri insieme, essere disposti non solo a lasciare entrare qualche altro nell’ambito della propria amicizia, ma essere invitanti, essere contenti che il circolo si allarghi e poi, tenuto conto che ciò che costituisce una vera amicizia non può allargarsi all’infinito, essere aperti anche ad altri gruppi di amici. Il fatto più naturale lo riscontriamo nella famiglia che è la comunità ideale, la quale, se è veramente cristiana, è aperta alle altre famiglie. La via normale per costituire anche le nostre comunità parrocchiali è quella delle famiglie autenticamente comunitarie, veramente aperte fra di loro.
Questo si deve verificare nel nostro ambito ecclesiale, nell’ambito del presbiterio, nell’ambito di quelli che attendono di entrare nel presbiterio. Capite come queste cose siano importanti non solo per appartenere alla chiesa e quindi per appartenere al popolo della salvezza, ma per essere chiesa, per essere edificatori della chiesa.
Tutto ciò che Dio, per mezzo di Gesù Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo, ha costituito in mezzo al suo popolo assume un carattere sacramentale di segno e di strumento. Se Gesù Cristo dice: « che siano una cosa sola, come io e te, o Padre, affinché il mondo creda », 15 vuol dire che l’unità fra di noi, nel pensiero di Gesù Cristo, è istituzionalizzata per essere segno e strumento di unità.
Come si edifica l’unità in mezzo agli altri? Con la nostra unità. Quei fenomeni ecclesiastici per cui ognuno predica per conto suo, ognuno fa direzione spirituale secondo le sue inclinazioni, ognuno fa la liturgia secondo il proprio estro, ognuno imposta l’azione pastorale secondo il proprio punto di vista, ecc., non sono per la edificazione del Corpo di Cristo: « Se c’è un unico corpo c’è un unico Spirito » 14 e l’unico Spirito non può che diffondere un unico amore, una unica carità, anche se i doni sono vari. E’ questo amore che deve raggiungere tutti gli strati della chiesa, tutti gli strati dell’umanità, deve essere segno, il segno visibile in coloro che hanno un ministero nella chiesa.
Raccogliamoci come gli apostoli, come i discepoli che erano perseveranti nella preghiera e nell’ascolto della Parola con Maria madre di Gesù; fermiamoci a riflettere su questi impegni così seri della nostra vita che hanno la loro sorgente, il loro modello nella vita stessa di Dio, che corrispondono al disegno della volontà di Dio di fare di noi tutti una cosa sola e che ci impegnano, da una parte a liberarci dal nostro egoismo e dall’altra a sviluppare giorno per giorno la nostra carità.
1) Gv 7,16. 8) cf I Cor 12,12.
2) Gen 1,26. 9) cf I Pt 2,5.
3) Gv 1,13. 10) Rm 5,5.
4) cf Ef 1,7. 11) cf I Cor 4,7.
5) cf Ef 2,14. 12) cf Rm 1U.
6) cf Ef 1,10. 13) Gv 17,23.
7) cf Col 1,18. 14) Ef 4,4.
Decima meditazione
Il centro focale della comunità
La nostra persona si realizza nella misura in cui, portando a maturità tutti i nostri doni, sviluppiamo vincoli e rapporti di carità con le divine Persone e con la persona dei nostri fratelli.
Una concezione personalistica della esistenza porta naturalmente a una concezione comunitaria della vita e delle relazioni. Abbiamo visto quali sono i fondamenti della vita comunitaria. Li troviamo in Dio, e nel suo piano che corrisponde al mistero e alla costituzione della sua chiesa.
Abbiamo anche visto che cosa comporta, da un punto di vista ascetico, la realizzazione di una vita comunitaria fra di noi: la liberazione dal nostro « io » e dal nostro « mio », l’educazione alla benevolenza e all’amore verso gli altri, il culto della amicizia, la quale è come un punto di partenza per espandersi su tutti i fratelli.
La vita comunitaria ha bisogno di essere sostenuta e alimentata dai mezzi che Dio ha disposto per costituire il suo popolo ; questi sono incentrati nella celebrazione del culto pubblico, nella liturgia.
Non intendo questa mattina intrattenervi sulla preghiera liturgica in genere; fermiamo la nostra attenzione invece al nucleo centrale della preghiera liturgica, la celebrazione eucaristica
la sorgente e il culmine della vita della chiesa
Non si costruisce nessuna comunità cristiana ed ecclesiale se non intorno alla eucaristia. L’eucaristia è l’anima della vita comunitaria. Un po’ parafrasando le espressioni del Concilio, possiamo dire che la vita comunitaria è mirabilmente espressa e adeguatamente operata dal mistero eucaristico.
Guardiamo il mistero cucaristico in due momenti, il momento istituzionale e il momento della celebrazione.
il sacrificio
Il momento della istituzione. Il sacrificio della nuova legge è quello di Gesù Cristo. Gesti Cristo ha celebrato il suo sacrificio nella sua persona: l’ha istituito nel Cenacolo e l’ha consumato sul Calvario. Sul Calvario perchè avesse il suo senso e la sua manifestazione inequivocabile di sacrificio, di immolazione, di donazione di se stesso; nel Cenacolo perchè avesse la sua espressione di convito, di mensa sacrificale, a indicare il frutto della celebrazione del sacrificio che è la comunione ottenuta con una sempre più piena adesione al Padre e una più stretta unione ai suoi figli attraverso il rinnegamento di se stessi.
il banchetto
Per una retta comprensione del sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo bisogna rifarsi al senso del banchetto sacro presso il popolo di Israele: voleva esprimere l’unità dei membri della famiglia e l’unità degli ospiti con tutti i membri della famiglia. Durante questo banchetto non era lecito assentarsi: era come una dichiarazione di inimicizia, così come il parteciparvi era dichiarazione di amicizia. Questa veniva espressa mangiando di un unico pane che il capo di famiglia spezzava e distribuiva tra i convitati e bevendo al calice dopo che era stata invocata la benedizione di Dio.
Gesù porta a compimento la « figura » nella celebrazione del banchetto pasquale, dove vuole esprimere la sua unione con i discepoli e la unione dei discepoli fra di loro. Il senso dell’ultima cena è dato dal discorso riportato da Giovanni e che abbiamo già richiamato. Questo discorso bisogna leggerlo in chiave eucaristica: « io e il Padre siamo una cosa sola »; « io in te, tu in me, noi in loro, essi in noi »; « che siano una cosa sola come io e te, o Padre ». i Quindi le raccomandazioni:«amatevi scambievolmente »; « questo è il precetto nuovo che vi amiate gli unì gli altri »; « questo è il mio precetto, che vi amiate come io vi ho amato » 2 Ecco il momento istituzionale della eucaristia che comporta come esigenza intrinseca la comunione con Dio nel Cristo e la comunione tra i fratelli. Tutto ha il suo compimento nella comunione sacramentale eucaristica.
la celebrazione
Il comando esplicito di Gesù è quello di continuare a fare ciò che egli ha fatto: «fate questo in memoria di me » a La ritualizzazione dei gesti e degli eventi della storia della salvezza non è solo una rievocazione storica, ma è un rendere presente l’azione di Dio, autore dei gesti e protagonista degli eventi. Dio è fuori del tempo. Coi gesti stabiliti da lui è garantita la sua presenza in mezzo a noi, è assicurata la sua azione e il senso della sua azione. Quindi la celebrazione liturgica della eucaristia esprime ed opera l’unità dei partecipanti alla celebrazione tra di loro e con il Signore Gesù.
La nuova definizione della Messa proposta dalla « Institutio » che precede il nuovo « Ordo missae » segna un capovolgimento del nostro modo di concepire: «missa seu sinaxis est actio Christi et populi Dei convenientis in unum, sacerdote praeside, ad memoriale Domini celebrandum ». 4 Gli attori di questa azione sono Cristo e il popolo di Dio.
Non si tratta del popolo di Dio dei battezzati o dei credenti in genere, ma dei membri del popolo di Dio nell’atto, nell’atteggiamento,
nell’intento di raggiungere l’unità: « convenientis in unum ». Non è soltanto l’unità data dal luogo unico in cui tutti convengono da tutte le parti, ma è un convenire per stare insieme e costituire, con un atteggiamento di fede, di speranza, di carità, la manifestazione anche esterna, quindi sacramentale, del popolo di Dio « ad memoriale Domini celebrandum », per celebrare il memoriale del Signore: il memoriale del Signore è il mistero della sua morte e risurrezione e ascensione al cielo.
Notate che questo popolo ha bisogno di una presidenza, ma non è la presidenza che costituisce il popolo. E’ Gesù Cristo ed è il convergere della carità vicendevole che costituisce questo popolo. Ma come la carità vicendevole ha la sua espressione nell’atto di convenire in unum, così Cristo che convoca a stare insieme e unifica le membra nell’unità del suo Corpo sacramentale, è visibile e operante, come Capo delle membra, nel ministero del sacerdote che presiede l’assemblea liturgica. Così l’ « actio Christi et populi Dei » ha il suo contenuto interiore e la sua espressione visibile.
tutti hanno la loro parte da compiere
In questa azione ognuno ha la sua parte, ognuno è attore: Gesù coinvolge, noi siamo coinvolti a celebrare il suo « memoriale »; qui è presente il sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo, il quale in ogni sua azione associa sempre la sua dilettissima sposa che è la chiesa.
Il popolo di Dio « convenientis in unum » è un popolo sacerdotale, costituito perché offra ostie e sacrifici spirituali, perché offra la propria persona e la sua esistenza. Quindi tutte le fatiche, tutti i sacrifici, tutte le difficoltà, tutte le debolezze, tutti i peccati, sono il materiale che questo popolo di Dio qui presente porta sull’altare e unisce con la fede al sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo, perché per il suo sangue tutto sia purificato, perché per il suo sangue venga strappata ogni radice di egoismo, perché per il suo sangue – espressione di amore – anche la nostra offerta sia una offerta di amore filiale al Padre.
Non ignoriamo la parte che compie lo Spirito Santo: è il fuoco che incendia la vittima e la trasforma in un indicibile slancio di amore purificato e divinizzato (figli di Dio) nel sangue di Cristo.
Quello che viene offerto sull’altare viene offerto a Dio per il bene e la salvezza di tutti: nostra e degli altri. Se noi sull’altare abbiamo offerto tutta la nostra persona, tutta la nostra attività, tutti i nostri guai di poveri uomini, tutto è accolto da Dio: è accolto dalla sua misericordia perché ha bisogno di essere purificato, è accolto dalla sua grazia perché ha bisogno di essere santificato e corroborato, è accolto dal suo amore perché tutto sia espressione di amore.
Ecco allora che la vita della chiesa, come comunità che si aduna in quel momento, è espressa nel modo più alto e nello stesso tempo più operante, perché il sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo s’innesta in ognuno di noi per renderci capaci, attraverso la croce, di superare ogni egoismo e di aprirci all’amore.
Per insegnarci a portare la nostra croce egli si mette davanti a noi perché camminiamo sui suoi passi: « chi vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda la sua croce e si metta dietro di me » 5 egli va a compiere la volontà del Padre fino alla consumazione.
Ma non sottovalutiamo che il memoriale del Signore lo celebriamo assisi alla sua mensa: il senso dello stupore, della sorpresa (i discepoli di Emmaus), la gioia dei convitati, la gratitudine per i doni imbanditi, l’impulso a condividere con gli altri i doni ricevuti, ed altri ancora, sono i sentimenti e le disposizioni che devono animare coloro che hanno viva la coscienza di mangiare la cena del Signore, di spezzare insieme un unico Pane e di bere a un unico Calice.
la nostra preghiera personale
Termino con una osservazione: bisogna dire che, per mezzo del Concilio, è stato felicemente riscoperto il valore della vita comunitaria, il valore della preghiera comunitaria e specialmente della preghiera liturgica. Sono valori insostituibili. Sono i più alti valori religiosi. Qui si raggiunge la sorgente e il culmine di tutta la vita e di tutta l’attività della chiesa, di tutta la vita e di tutta la attività cristiana.
Però non dimentichiamo che la comunità è costituita da persone e dalla ricchezza di ogni persona, che entri a far parte di questa unica realtà: una vita di comunione. Non si può entrare a far parte di un gruppo comunitario senza pensare alle responsabilità che ognuno ha di dare il suo apporto. Qui non si fanno addizioni matematiche col numero delle persone, qui si compongono delle somme di esistenze vissute. I valori sono personali prima di essere comunitari, anche se una autentica vita comunitaria esalta i valori personali.
Così è della preghiera comunitaria. La preghiera comunitaria, la celebrazione eucaristica in particolare, quella liturgica in genere, suppongono una preghiera personale.
La preghiera liturgica è una azione che ha i suoi ritmi, i suoi tempi, i suoi momenti ben determinati, che impegna parecchio, oltre che l’attività interiore, l’attività esteriore. Pensate al canto, ai gesti, ai movimenti che bisogna compiere bene, non soltanto nelle chiese benedettine, ma dovunque.
E’ liturgia fare bene il segno della croce, fare le genuflessioni senza appoggiare due mani su un ginocchio, ecc. Niente ritualismo; però i gesti devono corrispondere al valore delle azioni che si compiono e di ciò che significano. Tutto questo richiede un’attenzione esterna. Anche l’ascolto della Parola di Dio, così come la proclamazione della Parola di Dio da parte del lettore, del celebrante, richiede un’attenzione esterna notevole. Poi, anche se sono gesti a cui si fa l’abitudine e quindi si compiono con facilità, sono gesti che non si improvvisano, che per essere autentici devono esprimere ciò che significano, devono avere un contenuto e il contenuto bisogna possederlo.
Ecco alcuni motivi per cui la preghiera liturgica non dispensa assolutamente dalla preghiera personale.
La preghiera liturgica è un grande alimento per la preghiera personale; ma prima della comunità c’è la persona e la sua capacità di comunicare con gli altri e i suoi doni da partecipare agli altri, come pure la sua disponibilità ad accogliere perché in lei si è fatto posto.
Quindi la celebrazione liturgica deve avere una preparazione e uno sviluppo nella vita e nella preghiera personale.
Ognuno deve essere se stesso anche nella celebrazione liturgica. Ci sarà lo sforzo per ottenere l’armonia della voce, la sincronia dei gesti, l’unanimità dei sentimenti; ma ognuno con lo stesso gesto esprime la stessa cosa con una diversa intensità: questa intensità è data dal suo grado di unione con Dio e quindi dalla validità della sua preghiera personale.
1) Gv 17 passim.
2) Gv 13,24; 15,12.
3) Lc 22,19.
4) Institutio, I, 7.
5) Mt 16,24.
Undicesima meditazione
Chi sono i nostri fratelli
Non dite che faccio sempre quello che voglio io: perché vi ho interpellato, voi non avete fatto proposte e io continuo lo svolgimento del tema scelto per oggi, prendendo in considerazione la situazione di ognuno di noi nella comunità ecclesiale e le disposizioni che ci devono animare.
Premettiamo che la comunità ecclesiale è una comunità « sui generis », cioè essa non ha un riscontro nelle altre comunità umane. E’ composta di uomini, ma di uomini impegnati, attraverso la fede in Gesù Cristo nostro Signore, a realizzare un mondo migliore in se stessi e negli altri a un livello non solo spirituale, non semplicemente religioso, ma soprannaturale. Siamo nell’ordine della salvezza, siamo in un ambito dove chi è presente, chi prende l’iniziativa, chi dà a tutti la forza di portare a compimento il proprio impegno è Dio, per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo e l’azione dello Spirito Santo.
Però questa comunità ecclesiale non comporta soltanto degli elementi e delle realtà divine; la presenza di Dio e la sua azione salvifica in mezzo a noi esige, sollecita e sostiene l’azione degli uomini, secondo il piano di Dio, istituzionalizzato da nostro Signore Gesù Cristo.
intelligenza deIla istituzione
La parola « istituzione » suscita una certa insofferenza ai giorni nostri; per procedere con chiarezza, equilibrio e quindi secondo verità, è indispensabile distinguere tra istituzioni che derivano la loro origine dal Signore della chiesa e quelle ecclesiastiche.
Gesù Cristo è fondamento unico ma invisibile della sua chiesa e lui stesso continua ad edificarla con la sua Parola, con la sua Grazia e la potenza della sua Carità unificante. Ma ciò che egli compie in un modo invisibile, per una esigenza del mistero della sua Incarnazione e per fedeltà verso la nostra natura, deve essere compiuto anche visibilmente. Questa è la ragione per cui nella chiesa esistono persone che agiscono « in persona Christi » e gesti a cui è legata la fedeltà di Cristo di compiere interiormente ed efficacemente ciò che essi significano.
Queste persone, per l’azione sacramentale della consacrazione dell’ordine sacro, sono costituite segno e strumento dell’azione di Cristo Capo e Salvatore della chiesa. Quando agiscono « in persona Christi », sono al servizio di Cristo e della comunità, perché la chiesa sia edificata per la Parola, la Grazia e la Carità di cui sono ministri. Questa loro presenza e questa loro azione costituiscono il fondamento visibile e le linee portanti della struttura secondo cui vive e cresce la chiesa; queste linee sono la struttura divina della chiesa.
Di qui appare chiaro il senso e la insostituibile funzione dei ministeri nella chiesa, i quali, per essere rettamente intesi, non vanno confusi o identificati con la triplice missione della chiesa, rivestita del compito profetico, sacerdotale e regale di nostro Signore Gesù Cristo; come d’altro canto non vanno da essa separati.
tutti profeti, sacerdoti e re
Tutti i membri del popolo di Dio sono profeti, sacerdoti e re:
tutti sono profeti
perché hanno la capacità di ascoltare Dio (il profeta sa le cose di Dio e le può annunziare solo a condizione di averle rettamente ascoltate, altrimenti le sue « profezie » sono favole) e di rendere ragione delle cose in cui sperano e di rendere testimonianza a quelle che credono, e se questo vale per tutti tanto più è doveroso per i sacri ministri;
tutti sono sacerdoti
perché santificati dalla grazia dei sacramenti e in particolare della eucaristia e perciò incorporati a Cristo, al suo sacrificio di espiazione e di lode, il quale esige di avere il suo compimento nella persona e nella esistenza di ciascuno: offerti al Padre, per Cristo, nello Spirito, «in spiritu humilitatis et in animo contrito » per essere « in laudem gloriae suae »;
tutti sono re
perché dotati della libertà dei figli di Dio, per il sangue di Cristo che li strappò dalla schiavitù delle tenebre e li trasferì nel regno della sua grazia, tutti hanno la capacità di essere padroni di sé stessi e delle proprie passioni, di dominare e non di essere dominati dalle creature e inoltre di servire, come ha fatto il Signore, i propri fratelli, al fine di ordinare tutto e tutti a Dio, secondo l’itinerario paolino, « omnia vestra; vos autem Christi, Christus autem Dei ».1
il servizio del ministero
La triplice missione comune a tutti i membri del popolo di Dio (ministri sacri compresi) ha la sua derivazione da Cristo, tramite il servizio di coloro che, per la sacra ordinazione, lo stesso Cristo Capo e Salvatore della sua chiesa costituisce ministri della sua Parola, della sua Grazia e della sua Carità. Per la Parola di Dio legittimamente e autenticamente annunciata, tutti i membri del popolo di Dio sono costituiti profeti, come per la grazia efficacemente comunicata tutti sono costituiti sacerdoti e, per la carità di cui i membri della gerarchia sono segno e strumento e perno, tutti sono unificati nella signoria di Cristo e partecipano alla sua regalità.
La vita e la struttura della chiesa hanno il loro fondamento nei ministeri così come abbiamo tentato di abbozzarne la natura e le funzioni; però come la chiesa non è costituita dai soli ministri, ma da tutti indistintamente i membri del popolo di Dio, così la sua vita e la sua azione non è limitata ai ministeri, ma è mirabilmente dotata dalla ricchezza dei doni di cui ciascun membro è gratificato dalla inesauribile liberalità di Dio. Nessuno può porre limiti alla libertà dell’azione dello Spirito Santo nel diffondere i suoi carismi tra i
membri del popolo di Dio; però ogni carisma è autentico per il suo orientamento e la sua tensione verso il ministero e quindi verso l’edificazione dell’unità nella fede, nella speranza, nella carità di tutti i membri della chiesa. 2
Questa premessa discretamente estesa, anche se incompleta e tanto meno precisa, mi è parsa indispensabile per chiarire il posto e l’atteggiamento che ognuno deve prendere nella comunità ecclesiale.
Non stancatevi: ritorniamo brevemente ai singoli ministeri.
Il ministero della Parola. Iddio che dall’inizio della storia della salvezza si è messo in comunicazione con gli uomini attraverso i suoi rappresentanti e nella pienezza dei tempi ha parlato per mezzo del Figlio suo, vuole che la sua parola continui a raggiungere gli uomini con quel mezzo autentico, sicuro, stabilito da lui che è il ministero della parola.
Il ministero della grazia. Iddio non solo vuole comunicare il suo pensiero agli uomini, ma tutto se stesso, la sua stessa natura, vuole introdurci nella comunione della sua vita. E’ difficile definire la grazia, la vita soprannaturale, che attraverso Gesù Cristo, nello Spirito riceviamo da Dio; ma sappiamo con certezza che diventiamo
partecipi della natura di Dio, che non soltanto ai nome, ma di fatto diventiamo figli di Dio. 4
Ministero eucaristico. Il ministero della grazia ha la sua sorgente e il suo culmine nel ministero eucaristico. E’ un ministero del tutto
insostituibile: chiunque può battezzare, ministri del matrimonio sono gli stessi coniugi, esortare alla penitenza e garantire che ci sono le condizioni per una contrizione perfetta lo può fare anche chiunque sia esperto di vita spirituale; ma consacrare l’eucaristia è proprio di coloro che hanno ricevuto il mandato, l’imposizione delle mani, la consacrazione sacerdotale.
Il ministero della carità è quello che incontra maggiori ostacoli. E’ difficile stare a capo di una comunità nella posizione singolare di servizio prestato sull’esempio di chi è veramente il Signore 5 e con la grazia per mezzo della quale si ha il compito di fare l’unità in mezzo ai propri fratelli. E’ il ministero del pastore: guidare verso la unità con l’autorità che non è superiorità ma forza che viene dalla grazia di nostro Signore Gesù Cristo.
La grazia non accompagna soltanto il ministero sacramentale accompagna tutti i ministeri. Iddio non dà mai un compito senza una grazia adeguata: chi guida nella chiesa lo fa con un dono di grazia che illumina e conforta coloro che sono chiamati a camminare verso l’unità.
atteggiamenti comunitari
In questa comunità singolare, quella ecclesiale, quale atteggiamento dobbiamo prendere verso coloro che rappresentano Gesù Cristo Capo, verso i fratelli che hanno i nostri stessi impegni, verso coloro che non sono ancora entrati nella chiesa?
Verso tutti dobbiamo muoverci con spirito di fede perché siamo di fronte a realtà soprannaturali legate ed elementi umani, anzi veramente occorre un supplemento di fede, perché credere alla divinità di nostro Signore Gesù Cristo sfolgorante sul monte Tabor è facile, ma credere che nostro Signore Gesù Cristo sia Dio quando è morto in croce è scandalo e follia.
Guardate che questo accade, letteralmente, anche per la chiesa. Quando Gesù Cristo si incarna nella vita e nell’azione della chiesa da lui istituita, egli è presente e agisce attraverso strumenti limitati come sono le persone umane, le quali possono avere tanti difetti e tante debolezze, e appare veramente come il Cristo in croce e non il Cristo della gloria; sarebbe stato troppo comodo stare attendati sul monte! Questo non ve lo dice il Vescovo perché voi nella chiesa, nella comunità ecclesiastica siate più buoni, più quieti. Io non voglio mettere alcun freno alla vostra vivacità, quando questa è autentica, ma onestamente dobbiamo guardare alle cose come sono, come le ha fatte Domine Dio e poi dobbiamo impegnarci a prendere il nostro posto con quelle disposizioni che sono corrispondenti alle situazioni concrete.
Se si tratta, ripeto ancora, di realtà divine legate indissolubilmente a delle realtà umane, non possiamo accostarle senza essere guidati e illuminati dalla fede. La fede è il criterio e la luce più valida anche per scoprire e denunciare i difetti, per lavorare onde toglierli. Noi non possiamo stare inerti e pensare alla chiesa, che è il volto di nostro Signore Gesù Cristo, senza avere la preoccupazione di togliere ciò che la sfigura.
Noi non possiamo pensare alla santità e alla autenticità della chiesa senza preoccuparci dei mezzi per rendere la chiesa più credibile ai nostri fratelli. Perciò ci deve essere un atteggiamento che chiamiamo critico, ma deve essere l’atteggiamento amoroso e impegnato di coloro che lavorano perché la chiesa risplenda dinnanzi al mondo come Cristo l’ha concepita.
verso chi presiede
Rispetto a coloro che hanno il compito di rendere presente e operante Gesù Cristo Capo, cioè la gerarchia, quale atteggiamento dobbiamo prendere?
Se la comunità e la comunione si fa per mezzo della carità, la prima carità dobbiamo averla verso coloro che hanno delle responsabilità. Sarà un discorso che comprenderete più facilmente fra qualche anno.
Chissà perché il Papa e i Vescovi nella chiesa non devono essere ben voluti! Sono poveri uomini come tutti e tutto ciò che noi, poveri uomini, avremo fatto a loro, lo avremo fatto a Gesù Cristo 6, forse con qualche merito in più perché lo abbiamo fatto a loro. Non insisto. Riflettete.
Un altro atteggiamento da prendere verso i membri della gerarchia è la fiducia (facciamo un po’ di credito a questa povera gerarchia !) ; non tanto la fiducia nelle capacità che sono desiderabili, ma la fiducia da uomo a uomo, facendo credito alla loro rettitudine, alla loro buona volontà; sollecitiamo così e facilitiamo in loro un atteggiamento di paternità più vera, più naturale. Sono creature umane e se si sentono circondate da un po’ di fiducia e di confidenza saranno aiutate a liberarsi dalle « armature » in cui possono trovarsi prigionieri per essere se stessi.
Questo discorso non lo faccio nè per me nè per voi. Lo faccio perché noi siamo nella chiesa e nella chiesa dobbiamo prendere degli atteggiamenti chiari, sinceri, decisi davanti a tutti: dobbiamo avere la forza delle nostre convinzioni.
Noi esigiamo che il Parroco sia un padre, che il Sacerdote sia un padre, che il Vescovo sia un padre: per ciò che ha operato in loro la consacrazione lo sono; ma possono non esserlo per le strutture di un costume nato in determinate circostanze storiche, per una educazione carente, per temperamento, ecc.
Pensate a un povero Sacerdote o a un Vescovo che non gode della confidenza dei giovani… che cosa è mai! C’è un lato umano in tutto questo che può essere un dramma; ma c’è anche un lato soprannaturale che riguarda la vita della chiesa. Quante situazioni si possono trasformare per la ostinata confidenza di chi sta accanto a un superiore!
verso i corresponsabili
Il nostro atteggiamento nei confronti di quelli che hanno i nostri stessi impegni. Anticipate col pensiero la situazione in cui vi troverete tra poco. Sarete membri del presbiterio della nostra chiesa, cioè, entrerete in quella comunità, o meglio, comunione presbiterale, la quale costituzionalmente è destinata ad essere segno e strumento della carità di nostro Signore Gesù Cristo, segno e strumento dell’unità dei credenti.
Ci sono delle realtà ecclesiali che la teologia o non ha ancora registrato o non ha ancora sufficientemente sviluppato, mentre sono chiaramente proposte dalla Rivelazione.
A mio modesto avviso la collegialità dei Vescovi, l’unità nella carità dei Presbiteri intorno al Vescovo non possono essere degli elementi intermittenti della vita della chiesa, oppure dei semplici doveri morali o ridursi ad ordinamenti giuridici; per me sono elementi della costituzione sacramentale della chiesa: la chiesa è credibile non tanto apologeticamente, ma in quanto è portatrice di una forza salvifica propria, perché è segno e strumento di unità nella carità. Per di più: se la chiesa così deve essere in quanto popolo di Dio, tanto più lo deve essere in quanto fondamento e strumento della sua costituzione e della sua azione, cioè a livello dei sacri ministri.
L’unità effettiva tra i Vescovi e quella dei Presbiteri non può essere episodica, deve essere un costume, uno stile di vita che si riscontra abitualmente in tutte le espressioni della loro vita e della loro azione.
Voi trovate tanto naturale e facile la comunità presbiterale e vi dimostrate impazienti di realizzarla; ma chi non ha mai pensato a queste realtà e incomincia appena a scoprirle e non ne scorge tutti gli aspetti positivi, mentre è abituato a un costume diverso e profondamente radicato, credete, fa fatica a capirvi.
Io vi posso soltanto dire: abbiate il senso della storia e capite le cose; abbiate fiducia nella forza delle realtà salvifiche e non vi scoraggiate. Se ci sono delle difficoltà bisogna ben superarle e siete voi che dovete portare nell’ambito della comunità ecclesiale questo soffio nuovo di unità nella carità. Siete voi che vi dovete educare a questo senso della comunione in tutti i settori con un atteggiamento caritatevole verso coloro che non la intendono ancora o che non la ammettono ancora. Nella chiesa, quando si spara a zero si fanno dei guai; quando ci si impegna nella carità si sfonda e si edifica.
verso coloro di cui siamo responsabili
Il nostro atteggiamento verso coloro che sono affidati alle nostre cure: la nostra responsabilità pastorale. Poche parole: deve essere un atteggiamento di servizio; un atteggiamento fraterno,
l’atteggiamento di coloro che si mettono al livello dell’ultimo e che riconoscono con l’ultimo di avere bisogno di essere salvati da nostro Signore Gesù Cristo.
Noi, troppo facilmente e nello stesso tempo inconsciamente, finiamo di essere dei farisei che si sentono sicuri di se stessi: non siamo nel numero dei peccatori, nel numero di quelli che hanno ancora bisogno di essere salvati! Ricordo sempre un Vescovo, che in una commissione episcopale non era tanto soddisfatto che avessero introdotto l’italiano nei riti di introduzione della Messa; perché diceva:
« io, Vescovo, che devo rappresentare la santità di nostro Signore Gesù Cristo davanti alla mia gente, sono costretto a dire: mi confesso a voi fratelli che ho molto peccato! ». Attenti! Questi aveva l’ingenuità e l’onestà di manifestare certi sentimenti e certe reazioni; però quando noi diciamo di avere peccato molto in pensieri, opere, ecc., siamo veramente convinti di ciò che professiamo nei confronti dei nostri fratelli?
Metterci al livello degli ultimi con naturalezza e non per condiscendenza o per una certa degnazione, non è semplice ed è tanto essenziale. La gente, specialmente in certi ambienti, ci considera persone che vivono in un altro mondo, che non capiscono i loro problemi. Qui non è semplicemente questione di conoscere la sociologia o di fare determinate esperienze, ma è questione di un atteggiamento spirituale il quale è più serio e decisivo rispetto alle nostre responsabilità apostoliche. Che un sacerdote non abbia fatto certe esperienze per esercitare il ministero in un determinato ambiente, che non abbia approfondito con lo studio i problemi di un determinato ambiente, può essere una responsabilità, può essere anche una colpa, ma è molto più colpevole il suo atteggiamento spirituale di considerarsi e di sentirsi «diverso » : « non sum sicut coeteri ».7
Questo non significa fare del cameratismo. Ci vuole molto criterio, molto buon senso e molto equilibrio per essere noi stessi, ma poi ci vuole soprattutto tanta umiltà per mettersi al livello degli altri. Non come quel personaggio del Manzoni che era disposto a mettersi sotto gli altri, ma non al livello degli altri! Mettersi sotto agli altri può sembrare virtuoso, invece stare con semplicità con gli altri, come gli altri, è più cristiano e impegnativo. Se sono nostri fratelli, se sono come noi il prezzo del sangue di nostro Signore Gesù Cristo, se hanno come noi il diritto di dire: « Padre nostro che sei nei cieli », perché ci si deve sentire diversi?
Andate a cercare e cercate sempre queste motivazioni soprannaturali per trovare il vostro posto nella comunità ecclesiale.
1) I Cor 3,22-23.
2) cf I Cor 14,12; Ef 4,12.
3) c~ Ebr 1,2.
4) cf Pt 1,4:1 Gv 3,1.
5) cf Gv 13,14.
cf Mt 25,40.
7) Lc 18,11.
Conclusione di Don Benito Regis. Pregare per vivere
anzi per sopravvivere, come persone e come credenti, alle infinite suggestioni che oggi concludono alla robotizzazione dell’uomo, degradato a mera o perlopiù gregaria funzione: non è un ennesimo griso di alarme nè tantomeno una proposta evasiva e di comodo; è l’evidenza che si impone da queste limpide pagine nate da un incontro per molti aspetti ideale, che ha visto approfondirsi un delicato rapporto ed emergere in primo piano le istanze della fede personalmente più coinvolgenti e decisive.
Don Regis