Lo possiamo chiamare un “vescovo conciliare”, nel senso che il Concilio, dalla cui conclusione ci separano ormai più di dieci anni, è stato ed è l’ago magnetico o meglio, il lievito del suo pensiero. Tutto ciò balza evidente da questa intervista. Tredici domande, tredici risposte che vorrebbero essere – almeno un tantino il “punto” sui venticinque anni di episcopato di mons. Carlo Ferrari.
Quale ritiene sia stata l’esperienza più importante dei suoi 25 anni di episcopato?
Senza dubbio quella del Concilio. Si è trattato di un’esperienza che nella storia della Chiesa pochi vescovi hanno potuto vivere.
Lei avvertiva il bisogno di un Concilio? Come ha reagito al suo annuncio? Voglio dire con quali attese, voti, speranze?
Non mi aspettavo un Concilio. Quando ho saputo della sua convocazione, ho pensato ad un gesto caratteristico della personalità di papa Giovanni.Non avevo particolari attese dal Concilio, trattandosi di un fatto assolutamente fuori da ogni esperienza. Speravo comunque che accogliesse i fermenti più vivi del rinnovamento ecclesiale presenti oramai da qualche decennio in alcune minoranze e, dopo averli verificati, li proponesse con autorità a tutta la chiesa. Così di fatto è avvenuto.
Come ha vissuto sul piano umano e personale l’esperienza del Concilio? Si è trattato di una “conversione” o di una “conferma”?
Dell’uno e dell’altro. Conferma perché conoscevo abbastanza il pensiero che poi ha dominato nei vari momenti del Concilio; e in più certe proposte le avevo già fatte mie anche durante i primi anni del mio sacerdozio. Conversione perché l’illuminazione che ha dato il Concilio è stata fortissima e grazie a questo ho potuto prendere una visione molto più profonda della realtà sia della Chiesa come del mondo.
Quali sono stati a suo avviso i momenti forti dell’esperienza conciliare?
Ne ricordo uno ed è stato il momento decisivo: quando il card. Frings di Colonia dinnanzi all’assemblea ha dichiarato perentoriamente che sarebbero stati i vescovi assieme al Papa a gestire il Concilio. Si profilava quindi un cammino nuovo, al di fuori degli schemi preparati.
Per quali aspetti – idee, intuizioni, orientamenti – il Concilio è stato un fatto nuovo e di importanza storica nella vita della Chiesa?
Parlerei innanzitutto di centralità della Chiesa. E nella Chiesa di senso del mistero e d’emergenza definitiva del posto del popolo di Dio, inteso come tutti i membri della Chiesa: dal Papa al semplice battezzato.
Non pensa che i due papi del concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI, abbiano dato al concilio un’impronta diversa? In che cosa vede questa diversità?
Non direi che ci sia stata una diversa impronta nei due pontefici. E’ stato diverso il modo di intervenire. Papa Giovanni ha improntato il Concilio soprattutto con il discorso di apertura della prima sessione, Paolo Vl° riprendendo e sviluppando con il suo magistero di pontefice gli orientamenti che aveva espressi nell’assemblea conciliare come Arcivescovo di Milano. La diversità è stata di tipo culturale, ma ritengo che lo spirito fosse lo stesso.
Lei ha fatto degli interventi al Concilio, su quali temi?
Ho fatto degli interventi sia orali che scritti. Dovrei consultare il diario che ho tenuto di quei giorni per essere più preciso. Ricordo un breve intervento del primo giorno in favore del messaggio al mondo, un altro sulla partecipazione dei religiosi alla vita della chiesa attraverso l’inserimento nella chiesa locale, un terzo su problemi di pastorale della famiglia.
Cos’ha cambiato il Concilio nel suo modo di fare il vescovo?
Mi pare di essere stato confermato nel mio stile di fare il vescovo. Ho comunque cercato ancor di più uno stile di semplicità e soprattutto di servizio.
Come ha cercato di attuare il Concilio a Monopoli?
Come sempre la mia preoccupazione è stata quella di rendere partecipi i miei sacerdoti del mio, chiamiamolo così patrimonio spirituale e culturale e perciò ho subito avviato delle iniziative per la conoscenza del Concilio. Non tanto dei singoli documenti, quanto delle idee fondamentali. A partire dalla unità nella Chiesa e quindi a partire dalla carità vicendevole che costituisce il comandamento tipico di Nostro Signore Gesù Cristo.
Ritiene di essere stato capito? Ha trovato corrispondenza?
Posso ritenere di essere stato capito in quanto c’era una continuità di pensiero in me tra il pre-Concilio e il dopo-Concilio. Ho trovato corrispondenza a Monopoli anche perché il sud, in genere guarda con particolare rispetto l’uomo che viene dal nord. In particolare un vescovo.
E a Mantova? Si può parlare di “diocesi in stato di Concilio”? Perché ad esempio i consigli pastorali e parrocchiali voluti dal Concilio, impiegano tanto per nascere?
Ritengo di aver trovato Mantova in stato di post-Concilio e ritengo che sia tuttora in questo stato. Ma con un’ovvia considerazione: il Concilio fu una tale svolta che per le generazioni mature richiede un cambiamento totale di mentalità. E questo non è facile. Ci vuol pazienza e costanza per far accogliere quel che il Concilio ha proposto. Non bisogna far carico unicamente ai sacerdoti di una determinata età il fatto che certe richieste del Concilio non sono attuate: è anche il peso della mentalità, del costume e delle tradizioni del popolo che rallenta l’attuarsi di queste richieste del Concilio. Quindi si può capire l’impazienza dei giovani. Ma ai giovani si deve anche chiedere di poter camminare insieme, che è il segno autentico di voler appartenere alla Chiesa, anche se questo può costare dei sacrifici. Perché quello che vale è sempre la persona: non si deve mai mettere da parte la persona per i principi. Fossero anche i principi del Vangelo.
In generale considera soddisfacente o promettente l’andamento del dopo-Concilio?
Per natura sono ottimista e rimango ottimista. Le aspirazioni del Concilio – devo constatare si trovano al fondo delle aspirazioni autentiche che ci sono sia nella Chiesa che nel mondo, oggi, e avranno indubbiamente il loro coronamento. Tenendo presente che ogni realizzazione nella vita della Chiesa come nella vita umana passa sempre attraverso il crogiolo della Croce.
Come pensa che incida la situazione politica emersa dalle elezioni del 20 giugno sulla tenuta morale e sullo spirito di iniziativa dei cattolici?
Constato che ci sono vari sintomi di una ripresa più cosciente e più responsabile della “gestione” – diciamo così – della propria fede in tutti i campi compreso anche quello politico. Perciò questi fermenti che cominciano ad esplicitarsi, daranno i loro frutti.
“La Cittadella”, 12 Giugno 77