Omelia alla messa cresimale in S. Andrea
Giovedì Santo 1980
Fratelli e sorelle nel sacerdozio battesimale, fratelli nel sacerdozio ministeriale, con questa celebrazione noi vogliamo “fare memoria” in senso liturgico e sacramentale del momento in cui è nato il nostro essere di cristiani e di vescovi, presbiteri e diaconi. Fare memoria non significa ritornare al passato con la fantasia ma rendere attuale, con un realismo sconcertante, ciò che è accaduto nel passato ed è presente e vivo in quanto evento di salvezza consegnato alla chiesa perché attraverso le parole e i segni voluti da Cristo suo Sposo produca i frutti da Lui perseguiti.
Siamo nell’ambiente del Cenacolo, nell’atmosfera di ciò che sta per accadere, la Passione, la Morte e Risurrezione di Gesù Salvatore; noi nella chiesa, in questo momento, attualizziamo, in un modo estremamente misterioso ma reale e concreto, l’evento che sta alla sorgente di ciò che siamo: Cristo è fra di noi e con la potenza del suo Spirito ci dà la testimonianza del suo amore, espresso dalla sua morte in croce, e ci trasforma in suoi amici, in figli del Padre mandati nel mondo a continuare la sua missione.
Questo richiede che diventiamo ciò che celebriamo, quindi che diventiamo ciò che siamo: in virtù del santo battesimo siamo costituiti figli di Dio, per la santa cresima siamo confermati tempio della pienezza dello Spirito e per la santa ordinazione siamo i ministri qualificati della missione del Figlio. Sta a noi fare fruttificare ogni dono e ogni grazia per essere in tutte le dimensioni della nostra persona ciò che siamo costituiti in forza di ogni sacramento.
Di fatto, che cosa siamo o, meglio, chi siamo? Non andiamo a cercare la nostra identità nell’ambito delle discussioni teologiche ma al momento originale in cui siamo stati concepiti e partoriti dalla potenza dell’amore di Dio come si è manifestato nella Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo.
Non dimentichiamo: l’atmosfera dell’ultima Cena è tutta soffusa da ciò che dovrà accadere e Gesù anticipa nei segni ciò che dovrà verificarsi nella sua persona. Di noi, che siamo stati segnati dal carattere dell’ordinazione, si afferma che nella chiesa operiamo per la sua edificazione “in persona Christi”. E’ altrettanto vera ma più impressionante l’affermazione reciproca, cioè che Cristo opera nella nostra persona, che Cristo in modo misterioso ma vero assume la nostra persona (la nostra intenzionalità, le nostre labbra, le nostre mani, ecc.) per farla diventare sacerdotale, quindi conforme al momento cruciale e definitivo della sua missione, cioè la sua Pasqua.
Non allontaniamoci dal contesto della nostra celebrazione che è quello del Cenacolo: ciò che Gesù anticipa nei segni del pane e del vino, lo vivrà nel vivo della sua persona, nel vivo della sua carne e del suo cuore durante la sua passione e morte. Noi che siamo nati da questi segni e di essi ci nutriamo dobbiamo vivere nella nostra persona, nel nostro corpo, nel nostro spirito e nel nostro cuore il contenuto dei segni.
Gesù è sommerso dalle forze del male, della morte e del peccato. Nel Getsemani agonizza fino a sudare sangue, la ripugnanza, la paura e la tristezza si impossessano di lui; durante le fasi del suo processo è schernito, flagellato, sputacchiato, tradito, rinnegato, abbandonato; poi nella solitudine più spaventosa è appeso alla croce. E’ questo ripugnante mistero che Gesù vuol vivere nella nostra persona.
Non dobbiamo meravigliarci se nella lotta contro il peccato, nella quale siamo impegnati e per il battesimo e per l’ordine sacro, ci sono dei momenti in cui ci sembra di agonizzare; dobbiamo ripetere a noi stessi che dopo tutto non abbiamo resistito fino alla morte (Ebr. 12, 4). Non dobbiamo andare a cercare le ragioni di quanto ci accade da nessuna parte, le dobbiamo scoprire nel nostro essere di cristiani e di presbiteri, di diaconi, di vescovi; dobbiamo ricordarci e ripeterci che, ad ogni modo, è Cristo che vive in noi il suo mistero, il mistero della croce.
La chiesa intera lungo il suo pellegrinare nella storia agonizza, e allora come meravigliarci se Cristo agonizza in noi, vertice o, meglio, cuore del suo Corpo! Gesù vive ciò che ha istituito nella sua Sposa che è la chiesa: egli è flagellato, sputacchiato, incoronato di spine, tradito, rinnegato e abbandonato nelle sue membra, come lo fu nel Capo.
Questo, che è da ritenere normale per la nostra persona, non lo dobbiamo subire o sopportare ma lo dobbiamo vivere positivamente, in modo cosciente e deliberato. E’ più autentico spendere la nostra vita nella partecipazione al mistero della Croce di nostro Signore Gesù Cristo che spenderci, per una nostra scelta, a servizio dei fratelli. E’ sconcertante poi il mistero della debolezza di Gesù che nella sua agonia nell’orto e sulla croce sente il bisogno di aiuto e prega; si tratta di una indicazione ben precisa per quanti vogliano restare fedeli all’impegno del proprio ministero: “Sempre portiamo nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo” (2 Cor. 4,10).
La mortificazione e la preghiera per chi è stato scelto e deputato a rendere visibile la presenza e l’azione di Cristo Salvatore nel mondo sono due aspetti caratterizzanti la vita del sacerdote ordinato.
Ci sarà quindi il momento della desolazione: Cristo inchiodato pesantemente sul legno della croce dona veramente il suo corpo e versa veramente il suo sangue per la sua chiesa, per purificarla, per mondarla dal peccato, per renderla gloriosa e, attraverso la solitudine più spaventosa, con le ultime energie che gli rimangono intona: “Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato” (cfr. Sal. 22, 2).
Si parla spesso della solitudine del prete e si va alla ricerca delle cause e dei rimedi, ma in diversi casi si dimentica che esiste realmente una solitudine cristiana che si pone a livello dei rapporti più specifici e personali con il Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito. E’ una situazione nella quale è entrato il nostro Capo e nella quale per natura di cose devono entrare anche le membra; e più la partecipazione al mistero di Nostro Signore Gesù Cristo è profonda, più lo sarà anche la nostra desolazione. Paolo è esplicito: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal. 2, 20); quindi anche il mistero della sua solitudine. Ecco a quali traguardi porta l’agire e perciò il vivere “in persona Christi”: ogni volta che ci inoltreremo nella “conoscenza” di Cristo sarà un passo in avanti nella solitudine. Nella chiesa dobbiamo presentarci così: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Cristo e questi Crocifisso” (1 Cor. 2, 2).
L’atmosfera del Cenacolo ci riporta naturalmente a un’altra atmosfera vissuta dagli Apostoli nello stesso ambiente, quella di Pentecoste. Da quel momento gli Apostoli e i discepoli sono introdotti in tutta la profondità del mistero di Cristo; scoprono il paradosso del disegno del Padre di far sgorgare la vita dalla morte e la gioia dal dolore come si è verificato in Cristo: “Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce” (Ebr. 12, 2); come si è verificato nei suoi seguaci: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2 Cor. 7, 4), “Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5, 41).
Diventa chiaro per noi che parteciperemo alla gioia della risurrezione nella misura in cui partecipiamo alla sua morte: “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui” (Rm. 6, 8); una vita di cui abbiamo la testimonianza dello Spirito che a noi è stato dato in abbondanza e per le primizie di cui già godiamo nell’esperienza della multiforme grazia di Dio.
Capite allora a quale profondità noi dobbiamo vivere la nostra vita spirituale e quale e equilibrio dobbiamo possedere per rendere trasparente in noi il gaudio della certezza della vita in Dio nel vivo della mortificazione e della croce a cui siamo chiamati a partecipare ogni giorno. Ci deve accompagnare una certezza di fede che ogni istante della nostra vita è un passo verso la morte e verso la risurrezione, perché siamo coinvolti con Cristo che in noi continua a realizzare il paradosso della sua passione e morte e della sua risurrezione.
In questo tempo di delusioni, di angosce, di reazioni irrazionali noi siamo chiamati con urgenza a dare testimonianza seria di un’esistenza che ha e propone un senso alla vita pur nei più sconvolgenti turbamenti nei quali è immersa la nostra persona e quella dei fratelli: “So infatti a chi ho creduto” (2 Tim. 1, 12).
Dal registratore e stampa: ST 357 Giovedì santo 80, fascicolo unico, forse dato in omaggio con il giornale “La Cittadella” come segno di augurio pasquale.
ST 357 Giovedì Santo 80