Si tratta di riflessioni che nascono da una lunga esperienza di chiese locali e da un cuore ancora giovane e apostolico ma maturo nella Fede
Lettera del Cardinale Carlo Maria Martini
Cara Eccellenza,
ho letto con grande gioia i fogli che Lei mi ha gentilmente inviato in data 2I-12-86. Si tratta di meditazioni molto belle, immediate e nutrienti, che mettono a fuoco punti di dottrina e di vita che spesso portiamo sfocati dentro di noi. Ma è soprattutto la chiara impostazione Trinitaria e kerygmmatica che avvince e convince .
Sarebbe bello se potessero esser pubblicati dopo gli opportuni ripulimenti e alcune precisazioni di termini. Avrei anche un titolo: “Testamento di un Vescovo”. Si tratta infatti di riflessioni che nascono da una lunga esperienza di chiese locali e da un cuore ancora giovane e apostolico ma maturo nella fede.
Ancora tante grazie e un augurio per l’anno ormai iniziato, in unione di preghiera.
Presentazione di Bruno Forte
Questo testo racconta l’amore di Dio, così come esso ci è stato narrato nella santa storia delle nostre origini cristiane ed è stato sperimentato e vissuto nell’esistenza di un testimone.
Pagine cariche di opere e giorni, non meno che dell’Eterno che è venuto a narrarsi e donarsi nel povero tempo della nostra vicenda di uomini, queste pagine sono eco fedele della “sacra Pagina “, non meno che delle tante, umili pagine in cui è scritta ogni giorno la passione del mondo. Esse evocano una vita di frontiera, spesa tutta nella duplice fedeltà al tempo e all’eterno, nella faticosa e pur gioiosa ininterrotta coniugazione della terra e del cielo, del mondo presente e del mondo che deve venire. Sta qui la loro bellezza: l’oggettività pura della fede ecclesiale si unisce alla passione dell’esperienza vissuta, in modo che la prima non resti astratta o arida affermazione, e la seconda non si impoverisca in un’avventura intimista.
Il puro Oggetto della fede risuona in questo testo attraverso la ricchezza biblica che lo pervade, assimilata in una trasparente “lectio divina” ed attraverso l’abbondante riferimento al Concilio Vaticano II°, di cui l’Autore è stato protagonista, richiamato in un autentica recezione vitale, che ne fa scaturire la Profondità nascosta e le promesse implicite. Raccontare il cristianesimo come storia, facendo memoria del santo racconto dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito, e adorare il mistero della divina Presenza, è eco fedele non solo della testimonianza fontale, ma anche delle intuizioni del Concilio, che è stato “Concilio della Chiesa “proprio perché ha fortemente riscoperto le dimensioni della “Historia salutis nella memoria dell’origine trinitaria, nella coscienza del “frattempo “, nella speranza della Patria in cui Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,28).
La passione del testimone emerge in ogni pagina coniugandosi con lo spessore oggettivo di cui s’è detto, essa viene ad offrire un esempio contagioso di come spiritualità e dogma non vadano mai separati, ma si richiamino profondamente sul fondamento del fatto che il dogma è sempre “propter nos nos homines et nostram salutem” e l’esperienza dello Spirito rimanda sempre al mistero dell’Incarnazione
e della presenza del Cristo nel Suo Corpo ecclesiale. Con l gratitudine a Mons. Ferrari, Vescovo testimone, nasce allora l’augurio orante che queste pagine aiutino tutti noi a coniugare fede e vita, “Credo “professato. e “Credo” vissuto nella compagnia della fede e della vita della nostra gente.
Premessa
Queste pagine riferiscono una testimonianza: non vogliono essere un esposizione dottrinale di una realtà, ma intendono raccontare una esperienza di vita che riguarda il Dio della Rivelazione e ciò che egli ha compiuto nell’ambito della creazione e della Salvezza.
Per questo ritengo giusta la presentazione del testimone. Sarebbe sciocco parlare di se stesso se non si avesse la ferma convinzione che, ciò che si è e ciò che si è vissuto, è un puro dono di Dio. Spero di dimostrare largamente questa convinzione fondamentale di tutta la mia esistenza.
Nato nell’anno di Grazia 1910, compii gli studi normali per dodici anni nel Seminario diocesano; studiai con particolare interesse e impegno la teologia ed ebbi la fortuna di incontrare un professore di dogmatica che presentava la dottrina come il fondamento della vita spirituale. La vita spirituale costituiva fin da quegli anni l’interesse principale della mia vita; lo studio e le letture abbondanti hanno sempre avuto durante tutta la mia esistenza, l’umico fine di scoprire, approfondire, alimentare tutto ciò che ha attinenza con quella che a quei tempi si chiamava la vita interiore. In ordine alla presente testimonianza è giusto tenere conto che quest’interesse costituiva già una grazia destinata a diventare sempre più profonda con il passare degli anni.
Era naturale che questa grazia avesse le sue ripercussioni nel mio ministero. Fin da giovane sacerdote le mie preferenze furono per la predicazione (esercizi spirituali, settimane della gioventù, ecc.) e per la confessione: la direzione spirituale era la naturale conseguenza dell’una e dell’altra. Un numero considerevole di persone, di ogni ceto, hanno maturato durante oltre quarant’anni i semi di quella direzione spirituale E’ altrettanto doveroso tenere presente che la corrispondenza di quelle persone era uno stimolo al mio impegno di arricchimento spirituale.
Questa mia inclinazione divenne un impegno specifico con la nomina a direttore spirituale, prima del Seminario minore (ginnasio con 120 alunni), poi del Seminario maggiore (liceo e teologia con un uguale numero di alunni). Ogni giorno dettavo la meditazione e settimanalmente confessavo tutti gli alunni: alla confessione ho sempre legato la direzione spirituale, anche se questo non era del tutto conforme alle “norme”.
Poi nel 1952 fui consacrato Vescovo. Posso dire di essermi sempre mantenuto fedele all’impegno per lo studio e le letture, e per il ministero della Parola che ha conservato il primo posto. Ho molto ridotto il ministero della riconciliazione, perché sono stato assorbito dal ministero del Vescovo; ma una certa prudenza voleva che non si voltassero totalmente le spalle ad una tradizione secolare.
Grazia unica fu la, comunità dei superiori e degli insegnanti che incontrai nei due Seminari: specialmente nel Seminario maggiore, dove trovai colleghi eccezionali, quattro dei quali sono diventati Vescovi molto apprezzati.
Una esperienza che influì in misura incalcolabile fu la mia partecipazione al Concilio Vaticano Secondo. Vissi dall’interno questo evento straordinario della vita della Chiesa; ascoltai le voci delle piú eminenti personalità ecclesiastiche di tutti i continenti; partecipai alla dinamica che segnò un approfondimento del pensiero rivelato che poi maturò nei vari Documenti. Un fatto notevole fu la partecipazione alla più alta liturgia che non sia mai stata celebrata: mi è rimasto impresso il Sanctus cantato da tutti i Vescovi del mondo, unito a quello che cantano le schiere celesti. La mia personalità è maturata in modo imprevedibile e si è arricchita mirabilmente: una forza nuova e incontenibile mi ha spinto ad essere un evangelizzatore del Messaggio del Concilio.
Una esperienza che è durata circa vent’anni ha costituito il mio piú lungo impegno pastorale.
Quando da Monopoli sono arrivato a Mantova, con un pizzico di ironia che non mi è spiaciuto, sono stato definito: “Padre Carlo della Trinità, Vescovo del disimpegno”. Questo non deve meravigliare perché specialmente a quei tempi la Trinità era ritenuta una serie di concetti e di relazioni e l’impegno corrispondeva alle cosiddette direttive pratiche.
A distanza di vent’anni, capisco sempre meglio come fosse giusto il mio programma, anche se non corrispondeva alle attese, specialmente dei sacerdoti, che esigevano appunto “le cose pratiche”.
Proprio l’approfondimento del mistero trinitario ha evidenziato al mio spirito tre situazioni che esigevano un serio impegno pastorale. Le nostre comunità rischiavano di essere infantili ; di fatti, si può dire che la quasi totalità dell’impegno e del tempo era rivolto alla catechesi dei ragazzi, dei preadolescenti e in parte dei giovani e per gli adulti non si faceva niente. Questa catechesi poi era quasi del tutto nozionale e non era una educazione alla fede, tenuto conto inoltre che la fede dei piccoli ha bisogno di punti di riferimento e di sostegno costituiti dalla fede degli adulti.
Il grave problema anche oggi sono gli adulti, di cui la maggior parte non sono praticanti e questi non sempre sono credenti. L’evangelizzazione e la catechesi degli adulti è il problema più serio che, deve affrontare ogni comunità e che non può risolversi globalmente rivolgendosi a tutti. La pedagogia dell’Antico Testamento e Gesù nel Vangelo ci mettono sulla strada giusta: Dio riconduce il popolo di Israele alla fedeltà all’alleanza col piccolo “resto fedele”. Gesù afferma: « Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutto si fermenti » (Mt 13, 33).
Il resto fedele e il lievito sono i piccoli gruppi che irradieranno il Vangelo “per contagio”. La formazione di questi gruppi, io ho sostenuto, avviene per un’evangelizzazione e una catechesi “esperienziale”. Ho usato questo termine perché è accolto da molti autori, si distingue da sperimentale e implica non solo una condotta esemplare, ma soprattutto una vita traboccante dell’azione dello Spirito Santo.
Questi rilievi non corrispondevano ad indicazioni pratiche, perché richiedevano un cambiamento di mentalità, una visione piú vera delle situazioni e un impegno interiore molto esigente.
Il mio impegno ha cominciato a dare qualche frutto: la costanza dà i suoi frutti come dice il mio motto “patientia opus perfectum”.
La lunga esperienza, che continua ancora oggi, ha reso sempre piú viva quella che io definisco la testimonianza, che costituirà soggetto di queste mie pagine: io sono una persona amata.
Quest’affermazione potrà risultare sorprendente o anche di poco conto, ma per chi la vive è tutto: arrivare a questa convinzione e a questa certezza, a ben pensarci, costituisce il vertice della vita, umana e di quella cristiana. Dio è amore ed essere sicuri che Dio è interamente proteso verso di me è tutto. E’ una sicurezza che non nasce da una emozione, dalla sensibilità o dalla intelligenza: è un dono di Dio. E’ un dono di cui ho preso coscienza col maturare della mia vita. Ho la sicurezza chiara che lo Spirito Santo rende testimonianza al mio spirito che proprio io sono figlio di Dio (cfr Rm 8,16). Quindi non è frutto del mio impegno, ma è una grazia dell’azione dello Spirito che mi è stata data nel Battesimo, nella Cresima, nella Consacrazione presbiterale ed episcopale.
Il protagonista di questa azione è Dio: « ma Dio ricco di misericordia, per il grande amore col quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siamo stati salvati » (Ef 2, 4-5); « in questo sta l’amore di Dio: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi-» (1 Gv 4,10); « noi amiamo perché egli ci ha amati per primo » (1 Gv 4,19).
Questa azione è gratuita: vedi ancora la sopra citata Efesini 2,5; « E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza… » (Coi 2, 9-10); « senza di me non potete fare nulla » (Gv 15,5). Dunque non è per i miei meriti che ho questa certezza, ma per un dono gratuito di Dio. Tutto poi è frutto di misericordia: il comportamento di Dio è tutto ispirato alla misericordia: l’amore a contatto della miseria diventa misericordia, « darò gloria al tuo nome sempre perché grande è con me la tua misericordia » (Sal 6, 12-13); « anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe il mio affetto né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia » (Is. 54, 10); « così egli ha concesso misericordia ai nostri padri… per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio » (Lc 1, 72-73); « e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia su tutto l’Israele di Dio » (Gal 6,16).
Quello che piú conta in questa sicurezza è la fedeltà di Dio: tutta la divina Scrittura è una continua ripresa del tema della fedeltà di Dio. Molte persone impegnate con serietà nella loro vita spirituale sono insicure, facili anche allo scoraggiamento, perché non conoscono il Dio della Rivelazione. Anche i predicatori, alle volte hanno favorito questa malattia dello spirito. Una meditazione seria della Parola di Dio ci dà la sicurezza assoluta.
Un testo fondamentale è il cantico di Mosè: « Ascoltate, o cieli: io voglio parlare: oda la terra le parole della mia bocca!… egli è la Roccia… è un Dio verace senza malizia; egli è giusto e retto » (Deut 32, 1-4); « Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre » (Is 40,8); « Cosi sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata » (Is 5, 11); « e in realtà tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate “sì” » (2 Cor 1,20); « ricordati Signore del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre » (Sal 25,6).
Dunque, questa sicurezza è un dono dell’iniziativa di Dio, della sua gratuità, della sua misericordia e della sua fedeltà. lo sono una persona amata dal Padre che mi dona il Figlio, dal Figlio che mi dona se stesso e dallo Spirito Santo che realizza in me il dono di Dio. Questa sicurezza non è un idillio, si fonda sulla prova concreta dell’amore di Dio: credo di essere partecipe del mistero della passione, morte e risurrezione di nostro, Signore Gesù Cristo, per essere salvato; quindi non mi ritengo esente dalle prove, ma sono fiducioso nella forza della Risurrezione e della Gloria.
In questa sicurezza si inserisce un altro elemento prezioso: la presenza della Madonna. La mia unione con Maria è inseparabile da quella con Dio. Sono certo che essa si rallegra dell’amore che mi porta il mio Dio, che interpone la sua intercessione perché sia sempre piú grande e col suo amore materno mi custodisce nella fedeltà a questo amore. Per parte mia ho l’abitudine di attribuire a lei il frutto delle mie opere e dei miei sacrifici. E’ una disposizione che mi ha sempre accompagnato: nell’esercizio del mio ministero, nelle faticose pedalate di quando avevo la bicicletta e negli interminabili viaggi attraverso tutta l’Italia dal nord al sud e viceversa. La recita del rosario mi accompagna sempre. Inoltre il mio Angelo custode entra con la sua presenza in questa comunione.
Questa certezza è la base di tutta l’esperienza di vita che ho trascorsa partecipando intensamente ai misteri della divina Rivelazione. Mi permetto di insistere, la mia è una esperienza prima e piú che una conoscenza intellettuale: intendo narrare, non dimostrare. Per quanto ne sarò capace desidero mantenere il tono della narrazione, lasciando ai dotti il compito della dimostrazione. Eviterò le citazioni degli Autori e delle Opere che ho letto: tutto ciò che non ho vissuto, non sarà oggetto di questo scritto.
Farò delle affermazioni inconsuete, che saranno intese solo a prezzo di un cambiamento di mentalità e questo è quanto mai difficile; perciò con umiltà prego chi legge, prima di rifiutare una affermazione, di riflettere, di pregare, di confrontare le divine Scritture.
Userò un linguaggio semplice, evitando i termini tecnici di carattere filosofico e teologico, mi servirò di parole correnti comprensibili anche ai non addetti ai lavori, utilizzerò facilmente il paradosso e seguirò un andamento discorsivo.
I destinataridi questo scritto sono tutti: i Vescovi per primi e non per presunzione, ma per offrire umilmente a loro il frutto di oltre trent’anni di ministero episcopale, svolto al Sud e al Nord, in tempi di radicale evoluzione; i Presbiteri, i quali rendono presente il Vescovo nelle comunità e ne fanno le veci: anch’essi provengono da una formazione che oggi, a vent’anni dal Concilio, necessita di profondi mutamenti; i Religiosi e le Religiose che rischiano a volte di rimanere depositari di luoghi comuni, i quali non hanno niente a che fare col Vangelo; i laici praticanti che rimangono in varia misura clericalizzati e i laici non praticanti e non credenti i quali più facilmente si avvicinerebbero alla fede se conoscessero il Dio cristiano. A tutti mi accosto con grande rispetto e umiltà e offro una parola amica.
Il Cristianesimo è una storia
Il cristianesimo è una serie di eventi fatto di opere e di parole e non un complesso di verità intellettuali; protagonisti di questi eventi sono le Divine Persone e le persone umane; tra di esse esistono dei rapporti variamente definibili, ma di ordine concreto e quindi storico; questi rapporti sono rapporti di vita, di potenza, di sapienza, di amore e di tenerezza: da parte di Dio sono incontenibili, hanno una sorgente che attinge l’infinito, e perciò il tentativo di sistematizzarli in categorie umane è impossibile e irrazionale. Purtroppo, questo tentativo è durato per molti secoli e ha dimostrato largamemte il suo fallimento; il cristianesimo imbrigliato in queste strutture si è impoverito paurosamente. Il contenuto della divina Rivelazione espresso in termini intellettuali è diventato un sistema di verità astratte, lontane dalla vita e private della loro capacità salvifica.
Coloro che hanno una certa età e che hanno appreso il cristianesimo attraverso i così detti manuali della teologia scolastica, ricordano molto chiaramente che studiavano, per esempio, i trattati di “Dio Uno e Trino” e quello del “Verbo Incarnato”, senza concepire un solo pensiero e tanto meno un sentimento verso il Dio della Rivelazione e verso Gesù Cristo. La teologia era così lontana dalla Sacra Scrittura, i cui testi servivano soltanto a dimostrare le famose “tesi”, che si era giunti al punto di proibire ai fedeli la lettura della Bibbia, perché costituiva un pericolo!
Quanto sto per dire lo faccio con parecchia perplessità, perché può essere motivo di turbamento, ma d’altronde, è anche un motivo di sicurezza perché si tocca con mano che l’azione dello Spirito Santo ha la meglio sull’azione degli uomini. La chiesa lungo i secoli non ha resistito alla tentazione di procurarsi delle sicurezze umane: basti pensare all’epoca costantiniana, al Sacro Romano Impero, alla Scolastica, allo Stato Pontificio, eccetera. Contemporaneamente si è oscurata la presenza dell’azione dello Spirito Santo, che è diventato il Divino Sconosciuto. Noi in questo secolo abbiamo avuto la gioia di veder sorgere e di affermarsi il movimento liturgico e quello biblico, che hanno avuto la loro sanzione nel Concilio Vaticano Secondo. Esiste però un serio pericolo che questi movimenti non siano piú portati avanti con lo studio, la meditazione e l’applicazione dei documenti conciliari.
A proposito del nostro tema è necessario e urgente prendere in mano la Dei Verbum: un documento poco avvertito e non ancora studiato come merita. Eppure costituisce, tra i documenti conciliari, quello destinato a operare il piú profondo capovolgimento. Esige, perciò, anche il piú deciso capovolgimento di mentalità: si tratta di voltare le spalle a una certa teologia e tornare alle sorgenti della vita cristiana, cioè alla Sacra Scrittura. lo non ne ho la competenza, ma lascio il compito agli studiosi del cristianesimo, i quali diranno nei prossimi decenni i danni arrecati alla chiesa da quella teologia.
E ora leggiamo la parte fondamentale del documento in parola. Il proemio è solenne e perentorio: « In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacro concilio aderisce alla parola di san Giovanni, il quale dice: Annunciamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si è manifestata in noi: vi annunciamo ciò che abbiamo veduto, e udito, affinché anche voi abbiate comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesú Cristo (1 Gv 1, 2-3). Perciò seguendo le orme del concilio Tridentino e Vaticano I°, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami ».
Il documento passa subito a descrivere la natura e l’oggetto della rivelazione. Sono le parole che segnano il passaggio dall’economia della Legge a quella della Grazia e operano il capovolgimento di prospettiva.
« Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e fare conoscere il mistero della sua volontà (cfr Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Gesú Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr Col 1, 1 5; 1 Tim 1, 1 7) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (Es 33,1 1; Gv 15, 14-1 5) e si intrattiene con essi (cfr Bar 3,38) per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina (il contenuto) e le realtà significate dalle parole, mentre le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse con- tenute. La profonda verità poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta a Rivelazione » (DV n. 2).
San Giovanni, nella sua prima lettera mi ha sempre colpito per la insistenza con cui mette davanti ai lettori la concretezza storica dei Verbo di vita, affinché la nostra gioia sia piena: « ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato » (1 Gv 1,1); questa manifestazione visibile della vita che è presso il Padre, a cui siamo chiamati a comunicare, è eminentemente storica: i concetti razionali rischiano di rendere lontano il “Dio con noi”.
La rivelazione di Dio è un evento che ha Dio come protagonista e noi come termine e come oggetto della comunicazione di se stesso; questo Dio parla agli uomini come ad amici, si intrattiene con loro e li invita alla comunione con sé. Tutto questo avviene con parole ed opere, al punto, che le opere sono parole e le parole sono eventi. La parola piena e definitiva è il Verbo fatto carne.
« Dio, dopo avere a piú riprese e in piú modi parlato per mezzo dei profeti, alla fine dei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo dei Figlio » (Ebr 1, 19-20). « Mandò infatti il suo Figlio , cioè il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra di loro e ad essi spiegasse i segreti cli Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesú Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come uomo tra gli uomini parla le parole di Dio (Gv 3, 34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr Gv 5, 36; 17, 4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv 14, 9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, cioè che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e riconciliarci per la vita eterna » (DV n. 4).
« A Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede” (Rom 16, 26; cfr Rom 1, 5; 2 Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’ intero e liberamente prestandogli “il libero ossequio dell’intelletto e della volontà” e assentendo volontariamente alla rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”. Affinché poi l’intelligenza della Rivelazione diventi sempre piú profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni » (DV n. 5).
Gesú è al centro della storia contenuta nei Vangeli, negli scritti apostolici, negli Atti e nell’Apocalisse. Questa storia è avvenuta in luoghi determinati e in un tempo determinato: è legata come ogni evento storico al luogo e al tempo; ha un numero molto elevato di testimoni: dalle folle ai discepoli e agli apostoli i quali hanno condiviso la vita pubblica di Gesú, la predicazione, i miracoli, la passione e morte e la sua risurrezione. E’ un fatto sorprendente che, specialmente gli apostoli, alla scuola di Gesú non hanno capito il mistero della sua persona e della sua missione. Al momento della ascensione al cielo gli pongono la domanda: « E’ questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele? » (At. 1,6). Discende lo Spirito Santo ed essi comprendono tutto e, da paurosi che erano, trovano il coraggio di uscire all’aperto e di proclamare, anche dinanzi ai crocifissori, la persona, l’opera e la risurrezione di Gesú. Non annunciano una dottrina, ma una serie di eventi dei quali sono stati testimoni e anche protagonisti.
Diventa difficile comprendere come di una storia si sia fatta una dottrina, la quale è diventata oggetto, per tanti secoli, della teologia, della catechesi e della predicazione. E’ quindi provvidenziale che la coscienza cristiana sia stata illuminata dallo Spirito Santo e in questi ultimi tempi sia ritornata alle Sorgenti.
Ma, come ho già osservato, bisogna impegnarsi a superare una mentalità e a immergersi in questo movimento della vita nuova della chiesa, perché tutta la sua attività, dallo studio alla catechesi e al comportamento, corrisponda al nuovo e impellente dettato dello Spirito Santo.
La Dei Verbumva considerata, piú di ogni altro documento del Concilio, una grazia singolare dello Spirito Santo alla chiesa e richiede, di sua natura, il dovere di pregare perché da tutti sia largamente accolta.
Concludo con un esempio semplice, ma abbastanza significativo. Della preghiera cristiana piú popolare e completa, incentrata sui misteri principali della vita di Gesú, di Maria e della chiesa, il Rosario, abbiamo fatto un annuncio astratto: al centro della meditazione abbiamo posto non Gesú, Maria, lo Spirito Santo, ma la proclamazione astratta dell’annunciazione, della visitazione, della nascita, eccetera; cosí che la fede e la devozione di chi recita il rosario non sono orientate alle Persone protagoniste della salvezza, ma diventano affermazioni dottrinali astratte.
Il cristianesimo come storia continua nella vita e nelle istituzioni della chiesa. Il dono che il Padre fa del suo Figlio prediletto è un evento che continua nello spazio e nel tempo. Ogni credente ha la certezza di quella venuta e di quella abitazione permanente assicurata da Gesú; cosí la partecipazione alla divina natura è un fatto che si perpetua, sempre nel tempo e nello spazio, fino al compimento nella vita eterna. Gesú ha assicurato di essere con i suoi fino alla fine del tempo (Mt 28,20). Lo Spirito Santo continua la sua azione nell’anima del giusto dando sicurezza, illuminazione e amore. Ogni persona cristiana ha un suo riferimento concreto con le Divine Persone garantito dalla costituzione sacramentale della Chiesa.
I protagonisti della storia della divina Rivelazione
I soggetti delle opere e delle parole che costituiscono la vicenda della divina Rivelazione sono persone chiaramente definite. Si può dire, con la povertà del linguaggio umano, che è la Persona dei Padre che ha l’iniziativa, la Persona dei Figlio che esegue il disegno del Padre e la Persona dello Spirito Santo che porta a compimento il disegno del Padre eseguito dal Figlio.
Il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono talmente partecipi di un’unica potenza, di un unico amore, di un’unica tenerezza da essere un Dio solo. Per esprimere in qualche modo la dinamica della divina Rivelazione, non è “Uno” che diventa “Tre”, ma “Tre” che sono “Uno”. Questi “Tre” sono infinitamente distinti e nello stesso tempo infinitamente uniti. La divina Rivelazione culmina nello splendore del Figlio, Verbo fatto carne, tutto riferito al Padre, che con il Padre manda lo Spirito Santo.
La vicenda della divina Rivelazione ha come fine la persona umana: le opere e le parole dei Padre e del Figlio e dello Spirito Santo sono totalmente orientate e concretizzate nella persona umana; questa non si può definire con dei concetti, come ha fatto una certa teologia, perché si tratta di un essere che ha un suo riferimento essenziale ed esistenziale con le Divine Persone. La visione trinitaria del cristianesimo e la definizione personale del cristiano sono realtà indicibili che suscitano stupore, adorazione, rendimento di grazia, pentimento, gioia e glorificazione. Ho fiducia che lo sviluppo dei singoli temi confermerà questa affermazione.
La fede mi dà la certezza che io sono al centro della potenza, della sapienza e dell’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Io sono introdotto in modo vitale in quell’evento insondabile che è la divina Trinità. La divina Trinità, è bene ripeterlo, non è una Entità statica, ma è costituita da un dinamismo onnipotente e infinito che trabocca mirabilmente nella creazione e piú mirabilmente ancora nella Redenzione. Questo dinamismo sta al centro della storia della divina Rivelazione.
Per chi crede, la creazione è l’ambito in cui si manifesta la potenza, la sapienza, la bontà e la bellezza del Dio trinitario. La potenza nascosta nell’universo è incontenibile: si pensi alla forza misteriosa racchiusa nella piú piccola particella della materia, l’atomo, dotato di una quantità di energia spaventosa e, d’altro lato, si pensi all’universo cosmico, il quale è tutto un dispiegamento di attrazioni e ripulsioni smisurate. La sapienza, che presiede al segreto e all’armonia di tutte le creature, è conosciuta a un livello elementare nonostante i portentosi progressi della scienza e della tecnica dell’uomo moderno. La bontà è una specie di simpatia che tiene unito l’universo, dalla piú piccola particella della materia al cuore della natura umana. La bellezza è un elemento sul quale non si insiste sufficientemente e che costituisce il fondamento dello splendore di tutto il creato, destinato ad alimentare lo stupore e la gioia della persona umana.
Una esistenza senza stupore e senza gioia è piatta e insignificante. Si pensi alla differenza delle capacità percettive di una persona che ha l’abitudine di incantarsi davanti alla visione di un cielo stellato, alle profondità del silenzio, allo spettacolo di un prato, di un bosco e di un fiore, alla dolcezza commovente degli occhi di un bambino, da quella di una persona soffocata dall’asfalto e dal cemento, ossessionata dal fracasso e colpita dalla luce e dai colori artificiali. Al vertice della bellezza sta la persona umana: il bello ha ragione di essere in quanto è percepito dall’uomo e questa percezione non sarebbe possibile se in lui non ci fosse una sintonia e una simpatia con la Bellezza.
Queste affermazioni sono destinate a suscitare delle problematiche, e il discorso si farebbe lungo: non si dimentichino le conseguenze del peccato e di una certa educazione moralistica che ha influito negativamente su una visione serena della bellezza umana.
La potenza, la sapienza, l’amore, la tenerezza e la bellezza del Dio della Rivelazione, traboccano ancora piú mirabilmente nel mondo della Grazia. Qui entriamo piú specificamente nella storia che è il cristianesimo, e la nostra attenzione è tutta incentrata sui protagonisti di questa storia. Siamo cosí nel cuore del nostro tema. Per uno svolgimento piú adeguato scelgo di parlare distintamente delle Divine Persone, riservandomi di parlare in altri momenti della persona umana.
Il Padre
Ho avuto la grazia di scoprire e di conoscere il Padre fin dai lontani tempi della teologia. Questa conoscenza è andata sempre piú crescendo e ha segnato la mia vita spirituale e il mio ministero. lo sono stato definito una colonna di granito liscio che non offre nessun appiglio sentimentale, tuttavia la paternità di Dio mi ha talmente impregnato da lasciare segni indelebili in coloro che ho incontrato nel mio lungo ministero. Questa è la mia testimonianza al Padre, il quale tiene il primo posto nella storia della salvezza come è attestato dalle divine Scritture.
Il protagonista delle opere e delle parole narrate nell’Antico Testamento è il Padre. Soltanto nel Nuovo Testamento emergono con chiarezza le persone dei Figlio e dello Spirito Santo.
A cominciare dalle prime pagine della Bibbia, Dio dispiega la sua potenza e la sua sapienza nella creazione dell’universo, rivela in particolare il suo amore nella creazione dell’uomo e della donna; il castigo del peccato è accompagnato dalla promessa di un salvatore. Il rapporto con i Patriarchi è quello di un Dio misterioso, ma che interviene concretamente e si fa garante di promesse che alimenteranno la loro speranza in un avvenire pieno di grazia.
La vicenda centrale di questa lunga storia è l’Esodo. Dio si rivela a Mosè: da una parte nel mistero piú profondo e dall’altra nella preoccupazione manifestata nella potenza, nella pazienza e nella fedeltà di un amore che non può essere piú paterno.
I discorsi che Mosè rivolge al popolo di Dio sono un continuo richiamo alla osservanza della legge: la minaccia e l’esplosione dell’ira di Dio si concludono sempre nel segno dell’amore paterno, cioè nella fedeltà di Dio alla sua alleanza. I discorsi dei Profeti hanno lo stesso senso, e in essi si colgono espressioni commoventi della pietà e della tenerezza del Dio di Israele.
Leggiamo in Isaia (49, 14-1 5): ” Sion ha detto: – il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato -. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai “.
Geremia insiste: ” Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre piú vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui’, provo per lui la piú profonda tenerezza ” (31, 20-21).
Osea riassume così: ” Come potrei abbandonarti Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Zeboim? li mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira ” (11, 8-9).
Sappiamo che le parole dei Signore sono rivolte direttamente al suo popolo, ma sappiamo anche che hanno lo stesso senso per ogni membro di questo popolo.
Dio è rivelato pienamente come Padre nella Nuova Alleanza. Il Vangelo, che molte volte abbiamo ridotto a un codice di norme morali, è essenzialmente il lieto annuncio che Dio ci è Padre. Gesú Cristo nelle sue parole e nelle sue opere è tutto riferito al Padre, lo Spirito Santo compie la rivelazione della paternità di Dio.
Gesú entrando nel mondo dichiara apertamente: ” Allora io ho detto: ecco, io vengo – poiché di me è scritto nel rotolo dei libro – per fare, o Dio, la tua volontà ” (Ebr 10, 7-9). Quindi soggiunge: ” Perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato ” (Gv 6,38); ” Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi 1,a mandato ” (Gv 4,24). Ai suoi seguaci Gesú insegna a perdonare come il Padre perdona, ad amare come il Padre ama, ad essere perfetti come è perfetto il Padre (cfr. per es. Mt 8, 48). La cosiddetta parabola del figliol prodigo è la piú commovente illustrazione della bontà del Padre (Lc 15, 1-32). Gesú parla talmente bene del Padre e con tanto entusiasmo che Filippo dice: ” Mostraci il Padre e ci basta “. Risponde Gesú: ” Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi dire mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre che è in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro credetelo per le opere stesse ” (Gv 14, 8-13).
Le teofanie del battesimo e della trasfigurazione hanno al centro il Padre che proclama Gesú suo Figlio prediletto.
Il mistero finale della vita di Gesú, la sua passione e morte, è tutto un dialogo del Figlio con il Padre, di cui compie la volontà e nelle cui mani rimette lo spirito.
La persona del Padre costituisce e definisce il fondamento della persona umana. Di questo Padre noi siamo i figli: non di nome ma di fatto, così che il nostro comportamento morale non è comandato da una legge ma da un rapporto personale, che corrisponde alle nostre relazioni di figli con il padre.
Questa è una affermazione ardita; ma dobbiamo convincerci che non faremo mai il passaggio dalla economia della legge a quella della fede e della grazia, finché non concepiremo la nostra condotta morale come un rapporto unico e distinto con le Divine Persone.
L’esperienza mi spinge a insistere su questo che è il punto nodale della vita cristiana: la condotta morale non è un legame estrinseco che unisce la volontà umana con quella di Dio; la morale cristiana è un rapporto della persona umana tutta intera con le divine Persone; questo rapporto è costituito essenzialmente dalla partecipazione alla stessa natura divina (cfr 1 Gv 3, 1), dalla vita sovrabbondante che ci porta il Figlio (cfr Gv 10,10), dalla capacità di camminare secondo lo Spirito (cfr Rom 8, 3-4).
Come sempre, l’ignoranza delle Scritture ci ha riportati sotto il dominio della legge: si sono prodotti volumi e volumi di teologia morale, i quali non erano altre che una illustrazione dettagliata dei comandamenti, in genere, senza riferimento al Dio della Grazia.
E’ normale che ci voglia ancora tanto tempo e tanta fatica per il passaggio da una economia della legge a quella della fede.
Soffermiamoci a leggere, meditare, contemplare i testi biblici che affermano la nostra costituzione di figli di Dio.
” Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito dei suo Figlio che grida: Abbà, Padre! ” (Gal 4, 4-6). ” In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi ” (Ef 1,4); ” Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio ” (Rm 8,16). ” Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! ” (Rm 8, 14-1 5). ” Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente… carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato ” (1 Gv 3, 1-2).
Essere figli di Dio non è una pia affermazione, ma è la sostanza della vita cristiana, della nuova economia che è supposta dalla nuova creazione.
Non resisto alla tentazione di ricordare che per troppo tempo si è affermato: ” essere in grazia di Dio significa non avere peccati mortali sull’anima ” e si portava avanti una azione pastorale (missioni, ritiri di perseveranza, ecc.) orientati a stimolare le persone a vivere in grazia di Dio, intesa come assenza del peccato mortale. A questo scopo si teneva una insistente predicazione dei “novissimi” per inculcare la paura dell’inferno, prescindendo dalla lieta novella che Dio ci ama di un amore infinito, fedele e misericordioso e che di questo Dio noi siamo, di fatto, figli.
E questo, come abbiamo già piú volte avvertito, è avvenuto perché ci siamo allontanati dalla Sacra Scrittura e abbiamo ignorato lo Spirito.
Il Figlio
Non va dimenticato che le Divine Persone sono infinitamente unite, al punto di costituire un Dio solo, ma nello stesso tempo sono infinitamente distinte, e, per esprimerci con un linguaggio umano, ciascuna ha la sua fisionomia tutta illuminata da un amore infinito. In questo vortice che unifica il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo è coinvolta la persona umana.
Il Figlio è, con il Padre e lo Spirito Santo, il Protagonista della storia narrata nei Vangeli. In questa storia Gesú, animato dallo Spirito Santo, ha il compito di svolgere in un modo sensibile e concreto il disegno del Padre: togliere il peccato dal mondo e unificare, in un modo nuovo i dispersi, figli degli uomini con il Padre, sempre nello Spirito.
La mia esperienza riguardante il Figlio risale a tempi molto lontani ed è avvenuta soprattutto attraverso la liturgia, che dagli anni di teologia ho seguita quotidianamente con l’ausilio del “Messalino”. Ho celebrato così e ho scoperto in modo vitale i misteri della persona e della missione di nostro Signore Gesú Cristo. Naturalmente, la liturgia mi ha aperto la strada alla lettura e a una graduale conoscenza della Bibbia, specialmente dei testi del Nuovo Testamento.
L’Umanità di Gesú è il punto di partenza diretto e immediato di questa conoscenza. Questa è la via obbligata, confermata dall’esperienza dei santi, per arrivare a Dio e alla salvezza.
Gesú nasce dalla Vergine, cresce a Nazareth e matura come uomo. Lavora, si stanca, ha fame, si rattrista, gioisce, ha dei discepoli, degli amici uomini e donne, predilige i bambini, i poveri e i peccatori. In una parola, è in tutto simile a noi fuorché il peccato (cf Ebr 4,15). Gesú è tradito, agonizza nel Getsemani, è triste, ha paura, è tediato; Gesú è maltrattato davanti ai tribunali, è fiagellato, coronato di spine, sulla croce ha la sensazione di essere abbandonato dal Padre, spira con un alto grido. Il terzo giorno, però, Gesú risorge e appare visibilmente alle donne, agli apostoli e a cinquecento persone; alla vista degli apostoli sale in Cielo.
Gesú è veramente Dio: « In principio era il Verbo… il Verbo era Dio » (Gv 1, 1). « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto » (Mt 3, 17): questa solenne dichiarazione avviene durante il battesimo nel Giordano, all’inizio della vita pubblica; la stessa affermazione sarà ribadita durante la Trasfigurazione all’inizio, si può dire, della passione e morte di Gesú (cfr Mt 17, 5). « lo e il Padre siamo una cosa sola » (Gv 10, 30). « Padre santo, custodisci nel tuo amore coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi » (Gv 17, 11), « perché siano una cosa sola come noi » (Gv 17, 20).
Il Figlio viene nel mondo per compiere la volontà dei Padre che ‘vuole la nostra salvezza: « Ecco io vengo o Dio per fare la tua volontà » (Ebr 10, 9); « ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Cristo, fatta una volta per sempre » (Ebr. 10, 10); « li mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato » (Gv 4, 34); « Non cerco la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato » (Gv 5, 30); « Sono disceso dal cielo, non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato » (Gv 6, 38).
A questo punto faccio una breve parentesi per dire una parola sul consiglio evangelico della ubbidienza, la quale ha la sua radice nell’ubbidienza di Gesú, come abbiamo appena detto.
L’ubbidienza cristiana non è una qualsiasi sottomissione a Dio e a chi lo rappresenta. Essa deve essere posta nella continuità di quella di Gesú e quindi nel rapporto di figli con il padre; abbraccia tutto il piano di Dio, il quale vuole conferire alla persona umana la dignità e la libertà dei figli e in Gesú stabilisce il modello e la sorgente di questa dignità e libertà. « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli piú piccoli, l’avete fatto a me » (Mt 25, 40).
A pensarci bene il Vangelo è piú preoccupato dei sudditi che dei superiori: questi debbono essere servi, come dice Gesú: « il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per molti » (Mt 20, 28); « io sono tra di voi come un servitore » (Lc 22, 27).
Per mia esperienza sono piú preoccupato che, a qualunque livello, i membri di una comunità si vogliano bene e siano uniti tra di loro, piuttosto che individualmente sottomessi ai superiori. I superiori di conseguenza entrano nell’ambito di questo amore.
Gesú ci salva con il suo amore. Il peccato è il rifiuto di accogliere l’amore di Dio e di compiere la sua volontà. Il compimento della volontà dei Padre con il dono di sé “toglie” il peccato dal mondo.
« Gesú prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13, 1). Egli aveva dichiarato: « Nessuno ha un amore piú grande: dare la vita per i propri amici » (Gv 15, 13); « ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio ciò che il Padre mi ha comandato » (Gv 14, 31). L’amore con cui ci ama, Gesú lo esprime soprattutto nella sua passione, morte e risurrezione, quando dona tutto se stesso nel modo piú umiliante e doloroso. Il Padre accoglie questo amore: « E noi vi annunciamo la buona novella, che la promessa fatta ai Padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesú » (At 13, 32).
A conclusione del discorso sul Figlio di Dio è giusto mettere in evidenza il nostro rapporto con lui. Questo rapporto ci viene indicato da Gesú stesso nel suo Comandamento: « Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato così amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (GY 13, 34-35); « Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15, 12).
Il comandamento del Signore non è estrinseco; esso nasce da una forza interiore che deriva dalla costituzione di una vita nuova. Noi dobbiamo e possiamo amarci gli uni gli altri perché siamo di fatto figli di Dio, creature nuove; Gesú è venuto perché abbiamo la vita in abbondanza; egli stesso è la vita e noi abbiamo ricevuto della sua pienezza e siamo in grado di amare, perché l’amore è diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo.
E’ una realtà da ribadire: Gesú non è soltanto modello a cui riferirci, ma è eminentemente una sorgente viva che rende possibile l’autentica vita cristiana.
Ritorna sempre il discorso della economia della Legge e della Grazia
Lo Spirito Santo
Lo Spirito Santo è protagonista della storia narrata dalla divina Rivelazione insieme al Padre e al Figlio.
Le Divine Persone sono un Dio solo, e manifestano quella che abbiamo chiamato la loro fisionomia, nelle opere e nelle parole appropriata a ciascuna di esse e distintamente rivelate dalla stessa divina Scrittura.
Lo Spirito Santo è presente nella Bibbia dalla prima pagina all’ultima: « lo Spirito di Dio aleggiava sopra le acque » (Gen 1, 2); « Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni! » (Ap 22, 17). Egli è proiettato lungo tutti i tempi messianici: « un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore » (Is 11, 1-2); « vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne » (Ez 36, 25-26).
Come è evidente da questi e da altri testi, è una legge costante della salvezza che l’iniziativa è sempre e solo di Dio.
Il Nuovo Testamento esplicita la presenza e l’opera dello Spirito Santo: l’Incarnazione avviene per l’azione dello Spirito Santo, « lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo » (Lc 1, 31). Lo Spirito Santo appare al momento del battesimo di Gesú e segna l’inizio della vita pubblica: « il cielo si apri e scese su di lui lo Spirito Santo, in apparenza corporale come di colomba » (Le 3, 21). Verso la fine della sua vita Gesú promette lo Spirito Santo: « io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre » (Gv 14, 15). Lo Spirito Santo si manifesterà pienamente a Pentecoste (cfr At 2).
Per chiarire il nostro rapporto personale con la divina Trinità, è necessario mettere in evidenza i compiti principali dello Spirito Santo, come sono indicati dai testi della divina Rivelazione.
Il primo è quello di rivelare e dare la certezza che Dio è nostro Padre: Gesú ha rivelato il Padre come padre nostro, durante tutta la sua vita; di questa meravigliosa novella ci dà la sicurezza soltanto lo Spirito Santo il quale “rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8, 10). Questa realtà è talmente bella e infinitamente indicibile che non può essere appresa dalle nostre capacità conoscitive, ma è Dio stesso per mezzo del suo Spirito che ce la rivela in modo sicuro.
Qui siamo nel cuore della certezza di essere delle persone amate. Quando uno sa di essere amato raggiunge il fondamento della gioia, dell’equilibrio e della pace: è una persona contenta; il suo umore non è piú in balìa degli eventi e dei rapporti con le persone, ma si basa sulla Parola di Dio.
Il secondo compito dell’azione dello Spirito Santo in noi è quello di introdurci nella conoscenza di tutta la verità. La verità rivelata non è a livello delle capacità umane, ma appartiene all’ordine della partecipazione della divina natura, e soltanto l’Autore della Rivelazione ci può introdurre nella sua conoscenza.
La conoscenza, in senso biblico, non è di ordine intellettuale o sensibile, ma coinvolge tutte le facoltà della persona umana elevata all’ordine della fede, la quale non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (cfr 1 Cor 2, 5). « Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio » (1 Cor 2, 9-11). « Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre vi invia nel mio nome vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14, 26). « E’ bene per voi che io me ne vada, perché se io non me ne vado non verrà a voi il Consolatore… quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla Verità tutta intera » (Gv 16, 6.12).
Gli apostoli alla scuola di Gesú non capiscono il mistero della sua persona e della sua missione, ma quando ricevono lo Spirito Santo intendono tutto.
Tutte le volte che i teologi hanno voluto scrutare i misteri di Dio contando sulle capacità dell’intelligenza umana piú che sui dati biblici della fede e sul dono dello Spirito Santo, la loro conoscenza è approdata a un impoverimento evidente della verità rivelata e della stessa pratica pastorale.
In terzo luogo lo Spirito Santo che ci è stato dato nel Battesimo, nella Cresima e negli altri sacramenti, diffonde l’amore di Dio nei nostri cuori (cfr Rrn 5, 5).
Dio è Amore e lo Spirito Santo ci introduce nella partecipazione della natura e della vita di Dio. Lo Spirito Santo ci immerge nel vortice dell’amore che unifica le Persone di un solo Dio. Questo è veramente il culmine e la pienezza della vita cristiana.
I grandi comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo diventano possibili e vitalmente efficaci perché tutta la mente, tutto il cuore, tutte le forze sono illuminate, animate e ricevono energia, non perché esiste un comandamento esteriore, ma perché attingono ad una sorgente interiore, alimentata dalla potenza divina dello Spirito Santo.
Comportarci da figli del Padre, vivere la vita sovrabbondante che ci ha portato il Figlio, amare come il Padre e il Figlio amano è tutto dono dello Spirito Santo.
Questo divino Spirito l’ho conosciuto e vissuto attraverso la celebrazione liturgica e la lettura di san Paolo. Ho pregato privatamente e pubblicamente tenendo presente che lo Spirito prega in noi e nella chiesa: « … anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito Santo stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito; poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio » (Rm 8, 26-27). Lo Spirito Santo è stato presente nel mio ministero, in particolare nelle sacre ordinazioni e nelle cresime. Con impegno costante sono attento alla presenza dello Spirito che è in me e nelle persone che incontro, ricordando la consolante affermazione che noi siamo tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in noi (cfr 1 Cor 3, 16).
Il Dio presente
Può sembrare un gioco di parole parlare della presenza di Dio, piuttosto che della sua esistenza. Eppure in ordine alla vita cristiana c’è una differenza essenziale.
Tutta la divina Rivelazione è un discorso su Dio presente. Il Concilio ha ripreso questo tema e ha dichiarato a grandi lettere: Dio nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro, per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé (cfr DV 2). La Bibbia è il racconto della storia di questa presenza.
A principio Dio si intrattiene con Adamo ed Eva e fa con loro dei lunghi discorsi; dopo il peccato ritorna ancora da loro e promette un liberatore; anche con Caino, dopo il suo grande peccato, si intrattiene e promette che non sarà vendicato. Dio dialoga con Noè al tempo del diluvio. E’ significativa e carica di promesse la presenza di Dio con i patriarchi: dalla confidente preghiera di Abramo a Dio perché salvi Sodoma e Gomorra, alle promesse fatte ad Abramo di una discendenza senza numero, alla nascita e al sacrificio di Isacco e alle nozze con Rebecca, alla visione della scala di Giacobbe: tutto costituisce la radice da cui spunterà Israele, il “popolo di Dio”; proprio questo popolo sarà definito dal “Dio con noi”.
La presenza di Dio diventerà imponente con Mosè: la storia del piú grande dei Patriarchi è tutta connessa con il Dio presente. Il suo impressionante inizio è al roveto ardente: da questo momento Dio entra sensibilmente in un rapporto personale con lui, garantito da segni portentosi. Egli dà a Mosè la missione di liberare il popolo di Israele dalla opprimente schiavitù degli egiziani: colpirà l’Egitto con piaghe spaventose che spezzeranno il cuore del Faraone, il quale finalmente lascerà partire gli Ebrei.
Da questo momento Dio accompagna il popolo di Israele con grandi portenti e manifesta la sua presenza con la nube, che protegge i fuggiaschi di giorno per difenderli dal sole del deserto, e con la colonna di fuoco che li guida durante la notte. La presenza di Dio diventerà incontenibile e spaventosa negli incontri tra Mosè e il suo Dio sul monte Sinai. La maestà del monte sarà percorsa dai sussulti fragorosi del tuono e dei lampi che la incendieranno, e la voce che parla avrà il suono squillante di una tromba potente: è la voce di Dio che parla a Mosè per disporre il popolo al solenne evento dell’Alleanza.
Viene costruita la tenda, secondo le indicazioni di Dio, per contenere l’Arca dell’Alleanza e Dio manifesterà la sua presenza, quando Mosè entra nella tenda avvolgendola con la nube.
Con segni particolari della sua presenza e della sua potenza, Dio chiama, illumina e manda in mezzo al popolo i Profeti, perché si converta e ritorni a Lui.
Il “Dio con noi” avrà la sua pienezza e il suo culmine con la incarnazione del Verbo nel seno della Vergine Maria.
La presenza nel mondo del Figlio di Dio fatto uomo a Betlemme è rivelata dagli angeli che cantano gloria a Dio e pace agli uomini, dalla venuta dei pastori e dalla adorazione dei Magi; è proclamata in modo unico e solenne al Giordano, dove Gesú è indicato da Giovanni come colui che toglie il peccato dal mondo, e dove la voce del Padre lo dichiara suo Figlio diletto, mentre lo Spirito Santo si posa su di lui visibilmente in forma di colomba.
Il “Dio con noi” si manifesta in modo irrefutabile durante tutta la sua vita pubblica: con il suo continuo riferimento al Padre e con la lieta novella che Dio è nostro Padre, con la sua dottrina che nessuno aveva mai udito e particolarmente con i miracoli. I grandi misteri della passione, morte, risurrezione sono la prova estrema della presenza di Dio nel suo Figlio, il quale concluderà la sua missione con la promessa « ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli » (Mt 28, 20).
Il ritorno di Gesú in cielo non segna la fine della presenza di Dio in mezzo agli uomini; questa continua nel mistero, nella vita e nel ministero della chiesa: quando la chiesa parla è Dio che parla; quando la chiesa celebra le sue azioni liturgiche è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo che unifica nella carità è Dio che coinvolge nell’amore verso di sé, verso i fratelli e verso tutte le creature.
Con una espressione inconsueta si può affermare che il Dio cristiano ha la sua “geografia”. Percorrere il deserto dal mare Rosso al Sinai, visitare i luoghi significativi della Palestina non ha lo stesso senso che visitare Tebe, Cartagine, Roma, Londra: questi sono semplici richiami della memoria, quelli sono segni di una presenza di vita che continua, particolarmente in chi crede. Questa è la testimonianza di innumerevoli pellegrini e la mia personale.
La mia lunga esposizione ha lo scopo di mettere in evidenza, ancora una volta, che la vita cristiana non consiste nella osservanza della legge, ma nel rapporto personale con il Padre e con il Figlio e con lo Spirito Santo: Dio, dal monte Oreb al Cenacolo, è Dio con ognuna delle nostre persone, e ha promesso che verrà e stabilirà la sua dimora in noi (cfr Gv 14, 23).
Il Dio presente dà una forza e una grazia di conformità al suo Essere, molto piú impegnativa che la pura manifestazione della sua volontà, espressa nella Legge.
Ora è necessario un rilievo decisivo: la presenza di Dio non è soltanto l’effetto della sua potenza e della sua sapienza, ma è anche legata gioiosamente allo splendore della sua bontà e della sua tenerezza, è legata all’opera meravigliosa di tutta la salvezza dal male, dal dolore, dal peccato e dalla morte.
Solo così si spiega l’invocazione che percorre tutta la Bibbia: « vedere il volto di Dio ».
La vicenda del vedere il volto di Dio ha il suo inizio drammatico nel dialogo di Mosè con il suo Dio sul monte Sinai: « disse il Signore a Mosè: anche quanto hai detto io farò perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome. Gli disse (Mosè): mostrami la tua Gloria! Rispose (Dio): farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Aggiunse il Signore: ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere » (Es 33, 17-23).
La presenza di Dio è così indicibile e incontenibile che, nonostante si sappia che vedere Dio significa morire, l’anelito di vedere il volto di Dio rimane il desiderio piú potente dell’uomo biblico.
L’anelito della visione è particolarmente espresso nei Salmi; mentre da una parte è un desiderio che si sa inappagabile, dall’altra è legittimo come speranza: è il paradosso del Dio trascendente che entra nella vita della creatura.
Riporto alcune espressioni dei Salmi a modo di indicazione: « fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 12); « Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe » (Sal 23); « Di te ha detto il mio cuore: cercate il mio volto; il tuo volto, Signore, io cerco » (Sal 26); « fai splendere il tuo volto sul tuo servo, salvami per la tua misericordia » (Sal 30); « L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il tuo volto? » (Sal 4 I); « Rispondimi, Signore, benefica è la tua grazia; volgiti a me nella tua grande tenerezza. Non nascondere il tuo volto al tuo servo » (Sal 68); « Rialzaci, Signore, nostro Dio, fai splendere il tuo volto e noi saremo salvi » (Sal 70).
Il tema del volto di Dio e della sua presenza avrà il suo peso nel Nuovo Testamento. Intanto il profeta dice del Messia: « Tu sei il piú bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia » (Sal 44).
Gesú conferma la dottrina dell’Antico Testamento, e dichiara che in lui, sia pure nell’enigma e nel mistero, Dio si è fatto visibile: « Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato » (Gv 1, 18). Quindi Gesú alimenta il desiderio di vedere il volto di Dio: come abbiamo già notato, egli parla così bene e con tanto entusiasmo e gioia del Padre, che Filippo, a nome dei discepoli, gli chiede: « Signore, mostraci il Padre e ci basta » (Gv 14, 8). Conosciamo la risposta di Gesú: « chi ha visto me ha visto il Padre » (Gv 14, 9).
Si legge nei Vangeli un episodio enigmatico che conferma tutta la dottrina rivelata e riassume tutti i desideri di vedere il volto di Dio: è il mistero della Trasfigurazione. Sul monte Tabor, Gesú si trasfigura davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni: « il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui » (Mt 17, 2-3). Qui i grandi protagonisti dell’Antico Testamento rendono testimonianza, insieme a Gesú, della presenza della Gloria di Dio. Con questa rivelazione Gesú vuole confermare i suoi apostoli in vista della sua passione. Ma è significativo ]che la chiesa orientale sostenga che la Trasfigurazione non è un episodio isolato, ma costituisca la condizione abituale del Salvatore.
La trasfigurazione di Gesú è una proiezione della gloria futura, alla quale noi tutti credenti siamo incamminati, secondo le parole di Paolo: « e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3, 18), « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso » (Fil 3, 21).
Come si vede, il tema del Dio presente termina con l’azione dello Spirito Santo, il quale porta a compimento nelle nostre persone la gloria del volto di Dio in ogni istante della nostra esistenza cristiana.
In conclusione, noi dobbiamo lasciarci raggiungere da questa presenza e pensare decisamente che non siamo noi a metterci e a stare alla presenza di Dio. E’ Dio presente che, se bene inteso, crea in noi il bisogno di stare attenti e disponibili davanti al suo volto.
La conoscenza biblica
Il problema della conoscenza nella vita cristiana è uno dei piú critici, perché è quello che ha subito l’influsso piú radicale della filosofia ellenistica e di una certa teologia. Queste hanno influito sulla civiltà e sulla mentalità occidentale, e quindi anche sulla chiesa romana, fino al punto che – è un passato ancora recente – in terra di missione, si sentiva il bisogno di romanizzare prima di evangelizzare. La conseguenza è stata la riduzione della conoscenza alla sfera intellettuale e sensibile.
Basta pensare alla scuola, che dovrebbe costituire il fondamento e lo strumento principale della formazione dei giovani e che è limitata al puro apprendimento intellettuale: è ignorata la dimensione affettiva della persona e solo sporadicamente si parla della dimensione sessuale, ma in modo spesso distorto.
Questo fenomeno dovrebbe preoccupare tutti; in particolare, i cristiani hanno il dovere di acquistare della conoscenza il significato piú autentico, legato al problema, come vedremo, della salvezza integrale dell’uomo.
Naturalmente, il senso cristiano e di conseguenza umano della conoscenza, lo troviamo nei testi della divina Rivelazione. E’ inutile porsi degli interrogativi: Dio nella sua sovrana libertà, per rivelarsi al mondo, si è servito del linguaggio e della mentalità semita e non di quella, per es., ellenistica. Quindi per intendere la divina Rivelazione dobbiamo rifarci al linguaggio biblico.
Conoscere il Dio che si rivela, non avviene in un contesto di scienza ma in un contesto di vita. Dio è il Vivente e si manifesta per comunicarci una partecipazione alla sua vita: la conoscenza di Dio, secondo la Bibbia, è un avvenimento esistenziale che coinvolge la totalità della persona e non semplicemente l’intelligenza. Si conosce attraverso l’esperienza. La Bibbia descrive la conoscenza e, per esprimerne la pienezza, la identifica con l’atto coniugale. Dio “conosce” come uno sposo e noi dobbiamo “conoscerlo” come una sposa che è totalmente posseduta dallo sposo. Si capisce, allora, che il culmine della conoscenza è l’intimità, dove tutto è comune e dove la prevalenza è quella dell’amore.
Mi permetto di insistere: la dimensione affettiva è la componente piú importante della conoscenza biblica.
Già l’Antico Testamento, dall’Esodo ai Profeti, dice esplicitamente che Dio in persona prende l’iniziativa di conoscerci e di darci un cuore capace di conoscere: manderà uno spirito nuovo, ci darà un cuore nuovo perché siamo in grado di conoscerlo.
Lo Spirito che il Signore porrà nel germoglio di Jesse è soprattutto uno Spirito di conoscenza: « spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore » (Is 11, 4). La tradizione parlerà dei sette doni dello Spirito Santo: l’intelletto per penetrare dentro la rivelazione, la sapienza che fa acquistare il sapore delle cose divine, la scienza che introduce nel senso delle divine Scritture, la pietà che conferisce il sentimento filiale nei confronti del Padre, il consiglio che dà la capacità di guidare i fratelli e il timore di Dio che imprime il timore filiale e la forza di essere costanti.
Il fatto piú saliente e illuminante si trova nel Nuovo Testamento: è quello già ricordato e che mi ha colpito fino a diventare il principio orientativo della mia vita spirituale. Gli apostoli alla scuola di Gesú non capiscono niente della sua persona e della sua missione, quando ricevono lo Spirito Santo, che Gesú aveva promesso, sono introdotti nella conoscenza della Verità tutta intera. Paolo e Giovanni approfondiscono il tema in modo esauriente e persuasivo:« se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi conosce ama Dio ed è da Lui conosciuto » (1 Cor 8, 2-3); « e la mia parola e il mio messaggio non si basano su discorsi persuasivi di sapienza, ma nella manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio » (1 Cor 2, 4-5). « Carissimi, amiamoci gli uni gli altri perché l’amore è da Dio: chiunque ama Dio è generato da Dio e conosce Dio » (1 Gv 4, 7)
Come si vede, è necessario ritornare sulla nostra formazione e operare anche qui un capovolgimento. Nello studio, e nella meditazione che costituisce la pratica di pietà fondamentale, la dimensione intellettuale ha sempre avuto il primo posto; la vita affettiva, invece, quando addirittura non è stata guardata con sospetto, è rimasta costantemente in ombra. Riferisco un episodio in certo senso sconcertante: al mio paese morì un seminarista di teologia, giovane, simpatico e proclive all’amicizia; durante i funerali il mio Parroco ne tracciò il profilo. L’intera popolazione si sciolse in lacrime incontenibili; i suoi compagni di teologia rimasero impassibili. Questo potrebbe essere la conseguenza di una formazione prettamente intellettuale.
Come ho già notato, il problema investe tutta la formazione dei giovani, che purtroppo sfocia con evidenti danni anche nell’età adulta. Detto con prudenza, i rapporti coniugali che dovrebbero essere l’epilogo di una lunga preparazione di atti affettuosi e pieni di tenerezza sono lasciati all’istinto: oggi il termine amare ha assunto il significato di « andare a letto insieme »: la prima conseguenza è la precarietà della coppia e della famiglia. I coniugi devono mettere al primo posto la loro continua e approfondita conoscenza e avere la preoccupazione di crescere nella loro capacità di amare. I genitori a loro volta devono preoccuparsi dell’educazione dei figli all’amore, col dono di se stessi. Oggi esiste il pericolo di dare ai figli “molte cose” e non se stessi: il proprio tempo, l’attenzione, la confidenza, la pazienza e tanto affetto. I figli devono sentirsi al primo posto, non per motivi economici e di prestigio, ma per se stessi: sono delle persone.
Non posso concludere questo tema senza riportare uno dei testi piú pregnanti di san Paolo: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati, nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio » (Ef 3, 17-19).
Il Concilio
Ritengo opportuno fare una parentesi nella mia esposizione per togliere l’impressione di una certa insistenza, perlomeno singolare. Inoltre, proprio esaminando il documento principale del Concilio, avranno una maggiore credibilità le mie affermazioni.
La costituzione Lumen Gentium, rispetto al passato è un capovolgimento. Esisteva il pericolo di identificare la Chiesa con il Papa o addirittura con la Santa Sede, lasciando in ombra il mistero e il fondamento dei carismi della gerarchia della chiesa. La costituzione ha avuto un inizio travagliato per lo scontro di due mentalità opposte; ma quando i lavori del Concilio sono stati avocati pienamente, col consenso del santo Padre, ai padri conciliari, i lavori presero un altro andamento. L’impostazione del tema ebbe il suo capovolgimento: al primo posto il mistero, al centro il popolo di Dio e al terzo posto la gerarchia.
Finalmente ebbe termine quello che era chiamato “l’esilio della Trinità”.
Il primo capitolo della Lumen Géntium è stato dedicato al mistero trinitario. Non era concepibile che un’opera riguardante la salvezza non avesse come iniziatori e protagonisti le Divine Persone: è Dio che ha concepito da tutta l’eternità e ha operato nel tempo la salvezza dell’uomo e dell’universo; è Dio proteso con il suo amore infinito verso l’uomo.
E’ logico, quindi, che l’opera del Padre del Figlio e dello Spirito Santo costituisca il fondamento del principale strumento della salvezza, che è la chiesa: il Padre concepisce il disegno salvifico universale; il Figlio esegue il disegno del Padre; lo Spirito Santo porta a compirnento l’opera del Padre e del Figlio, ed è – in qualche modo – l’anima della chiesa. Le immagini bibliche completano la descrizione della piú grande delle istituzioni, al punto che la chiesa universale si presenta come « un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ».
Come ho già affermato, al centro del disegno dell’opera salvifica delle Divine Persone, sta l’uomo; quindi, è parimenti logico che al centro della costituzione ci sia il capitolo su “Il Popolo di Dio”.
Il popolo di Dio ha una lunga storia e delle vicende alterne che occupano tutto l’Antico Testamento; con questo popolo Dio ha stretto la sua alleanza che diventerà definitiva, completa e traboccante con il Nuovo Testamento e avrà la sua continuità nel mistero e nella costituzione della chiesa.
« Questo popolo messianico ha per capo Cristo – che è stato dato a morte per i nostri peccati, ed è risuscitato per la nostra giustificazione – e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo, come nel suo tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati. E, finalmente,ha per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra e, anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio » (LG n. 9).
Il popolo di Dio è costituito da membri dotati della dignità e della libertà dei figli di Dio. Nell’ordine della salvezza non esiste una dignità piú grande: tutto è inferiore. Il Papa, i Cardinali, i Vescovi sono nell’ambito della salvezza in quanto figli di Dio, non possono avere una dignità piú alta.
Le vicende storiche hanno indotto nella chiesa un costume e delle istituzioni che, solo attraverso i secoli, si attenueranno. Il Papa, i Vescovi, i Presbiteri e i Diaconi sono tutti a un medesimo titolo membri dell’unico popolo di Dio.
Il Concilio, al terzo posto, ha trattato della gerarchia. Non bisogna confondere i poteri sacri con la dignità; questa è nell’ordine del fine, quelli sono nell’ordine degli strumenti. Perciò era logico che la gerarchia fosse definita come servizio. Lo stesso Figlio di Dio, che sta al di sopra di ogni dignità, perché Figlio unigenito del Padre, si è fatto servo per salvare i dispersi figli di Dio e dichiara apertamente di non essere venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita per i fratelli (cfr Mt 20, 28).
I membri del popolo di Dio per mantenersi, crescere e maturare nella loro dignità e libertà, hanno bisogno dei dono della Parola, della Grazia e della Carità. Per questo alcuni di loro sono scelti e chiamati appunto per esercitare nella chiesa il ministero della Parola, della Grazia e della Carità. Questi ministeri ricevono la loro efficacia non dagli uomini, ma da Dio, attraverso l’azione dello Spirito Santo. Al primo posto ci sono i Vescovi, successori degli apostoli, insieme al Papa che succede a Pietro. Il Concilio afferma che uno è Vescovo per la consacrazione sacramentale e la comunione con tutti i Vescovi, ai quali presiede il Sommo Pontefice.
Purtroppo questa seconda condizione, di sua natura costitutiva, è scarsamente attesa; e ognuno fa il Vescovo come se la pienezza e l’efficacia dei suoi poteri dipendessero unicamente dalla consacrazione. Gesú ha istituito i “dodici”, come corpo apostolico, a cui ha dato Pietro come capo. La piú ricca definizione del Papa è quella di “presidente della carità”, ma questa presidenza nella chiesa è tanto piú ricca nella misura in cui è stretta la comunione dei Vescovi tra di loro. Naturalmente sono sempre da riconoscere le prerogative del successore di Pietro: il suo primato su tutta la Chiesa e la sua infallibilità. Anche qui c’è ancora molto cammino prima di trovare la via per attuare la pienezza di vita della chiesa. Per mia esperienza e convinzione, non sono le piccole diocesi che costituiscono problema, ma le grandi, proprio in vista di una comunione piú concreta.
Concludo questa parentesi con un rilievo sul ministero dei Vescovi che è proprio della Lumen Gentium. Descrivendo il triplice ministero dei Vescovi, il Concilio conferma: « Tra le funzioni principali dei Vescovi eccelle la predicazione del Vangelo » (LG n. 25). Esiste una affinità e un rapporto del tutto singolare tra il dono dello Spirito Santo che abilita alla predicazione della parola di Dio. Nella chiesa non c’è nessuno che possieda una costituzione personale così legata alla divina Rivelazione. I santi possono avere anche delle intuizioni particolari sui divini misteri, ma sono delle grazie episodiche. I Vescovi sono costituiti nella chiesa per essere introdotti nella pienezza di tutta la verità: a loro è affidata la grazia permanente di penetrare il senso della Parola di Dio in ordine alla salvezza dei fratelli. Perciò i Vescovi non possono accontentarsi delle pratiche di pietà di un buon ecclesiastico, ma devono essere, senza restrizioni, dei veri contemplativi. Devono trovare il tempo migliore e il piú disteso per stare sotto l’influsso dell’azione dello Spirito Santo, che apre il loro spirito e il loro cuore alla ricchezza della parola di Dio. Devono mantenersi in un atteggiamento attento e disponibile.
Da, una parte sta il fatto inaudito di Dio che rivela se stesso agli uomini; dall’altra c’è la persona umana, a cui è rivolta la parola di Dio carica di salvezza; in mezzo il ministero del Vescovo effonde sui fratelli la sovrabbondanza della sua conoscenza di Dio.
Si capisce allora come il Concilio metta al primo posto, come eccellente, il ministero della parola. Purtroppo capita che il Vescovo non abbia chiara questa coscienza e che troppe volte i membri del popolo di Dio richiedano la presenza del Vescovo per impegni che non hanno nulla a che fare con il suo compito specifico.
Il Concilio parla della predicazione del Vangelo. Il Vangelo, non dimentichiamolo, è un lieto annuncio, una notizia gioiosa: Dio è presente, Dio ci ama, Dio perdona i nostri peccati, Dio è nostro Padre, Dio fa di noi i suoi figli, Dio ha mandato il suo Figlio, Dio effonde il suo Spirito nei cuori e noi abbiamo il privilegio e la gioia di chiamarlo “Abbà”. Chi ascolta la parola del Vescovo dovrebbe andarsene pieno di gioia, di sicurezza, di pace, perché « noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece collaboratori della vostra gioia » (2 Cor 1, 24).
E’ vero che nel mondo c’è il peccato, ma è altrettanto vero che il peccato è rimesso e che, « a chi piú si rimette, piú ama » (cfr Lc 7, 41 ss). Poi, non è secondo il Vangelo la pura denunzia del peccato: è Vangelo il perdono del peccato accompagnato da una grazia che toglie il peccato e ristabilisce nella condizione di figli di Dio.
A questo punto si potrebbe pensare che una siffatta evangelizzazione sia astratta e non tenga conto delle condizioni concrete in cui vivono gli uomini. Proprio la luce della parola di Dio fa scoprire queste situazioni e offre il rimedio per risolverle. Io sono del parere che non le condizioni debbono essere evangelizzate, ma gli uomini che vivono in esse. Per esempio, l’economia, la politica, la sociologia sono realtà mondane, che hanno leggi loro proprie: sono i cristiani che debbono impegnarsi per animare queste realtà secondo il Vangelo.
Queste sono alcune considerazioni che nascono da una lunga esperienza. A mano a mano che le affermazioni del Concilio venivano sancite, erano per me motivo di grande gioia; entro nella tristezza quando le medesime affermazioni non sono accolte con pienezza. Ma la pazienza e la speranza non mi abbandonano.
Non è bene che l’uomo sia solo
Riprendo il mio discorso: il cristianesimo è una storia; i protagonisti di questa storia sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, uniti al punto da essere un Dio solo. Le Divine Persone nell’evento della Rivelazione sono tutte protese verso la persona umana. Questa si definisce proprio per il suo rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Ma a me viene la tentazione di spingere oltre il discorso per vedere piú da vicino la persona umana. Nella Bibbia c’è una affermazione che pone problemi molto seri:« non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile » (Gen 2, 18). Sono due le affermazioni. La prima: non è bene che l’uomo sia solo; la seconda, assicura un aiuto che gli sia simile e cioè la donna.
Prima del compito della procreazione, che è proprio della coppia umana, esiste il fatto e il problema della solitudine che Dio risolve con la creazione distinta dell’uomo e della donna. La donna è creata per risolvere questo problema, non è bene che l’uomo sia solo. La solitudine è un vuoto contro natura, difatti la natura aborrisce il vuoto. Una certa spiritualità ha esaltato la solitudine: « oh beata solitudine, o sola beatitudine ». Non si capisce come questo possa rispondere al piano di Dio e al comandamento di Gesú di amarci come egli ci ha amato.
La donna, in seguito al peccato originale e alle situazioni storiche e sociali in cui è venuta a trovarsi, è stata vista piú come un pericolo che come l’aiuto costituito da Dio stesso per rimediare la solitudine. Oggi, finalmente, si fa strada la coscienza della pari dignità dell’uomo e della donna.
L’uomo e la donna non sono complementari ma reciproci: l’uomo ha bisogno della donna, la donna ha bisogno dell’uomo. Ma i problemi nascono quando si tratta di rapporti personali esistenziali. Come si fa ad affermare che un uomo può essere amico di una donna, e viceversa, senza suscitare reazioni a non finire?
Ritengo che una soluzione ci deve essere per rispondere al piano di Dio e realizzare il comandamento del Signore. Certamente Gesú quando ha detto: « in questo riconosceranno che siete miei discepoli se avrete amore vicendevole », non intendeva che gli uomini amassero gli uomini e le donne amassero le donne. Gli Atti degli Apostoli, nel descrivere la comunità di coloro che avevano ricevuto lo Spirito, e san Paolo nei saluti con i quali chiude le sue lettere, dimostrano il contrario.
Nel rapporto uomo – donna e nei rapporti vicendevoli, alla base sta l’amore. E’ un’affermazione da intendere bene. Non bisogna ridurre il comandamento del Signore al dovere di amare, ma intenderlo in tutta la sua completezza, la quale implica di essere delle persone amabili. Chi ha questa preoccupazione? Eppure, a ben pensarci, risponde a una chiara esigenza del Vangelo.
A questo proposito mi pare significativa l’esortazione di Pietro: « Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna » (1 Pt 1, 22-23).
La mia soluzione è questa: vivere la vita nuova donata dal Padre, portata in sovrabbondanza dal Figlio, confermata dallo Spirito Santo. E’ assurdo pretendere una condotta conforme al piano di Dio e al nuovo comandamento, senza la grazia che sovrabbonda anche dove abbonda il peccato (cfr Rm 5, 20). In secondo luogo, è necessario liberarci da tutti i preconcetti e acquistare una visione serena, con l’occhio di Dio, dell’uomo e della donna: creature della sua potenza, della sua sapienza, del suo amore, della sua bellezza, che Egli ha posto al vertice del creato. Ma è anche necessario difendersi e liberarsi dalla visione che una certa civiltà pansessualistica, coi suoi strumenti della comunicazione sociale, impone in modo ossessivo. In conclusione, le norme ascetiche di una sana spiritualità sono sempre indispensabili.
Non posso passare sotto silenzio la dimensione sessuale della persona umana. E’ difficile definire la sessualità; tanto per intenderci, io la considero quell’impulso che coinvolge tutto l’essere umano dallo spirito, ai sensi, alla sensibilità, fino agli elementi somatici che sono ben distinti tra l’uomo e la donna.
Senza questa dimensione vengono a mancare tanto nell’uomo come nella donna lo slancio, lo stupore, la meraviglia, l’intimità dei sentimenti e una visione totale e completa della realtà.
Nella condizione attuale di peccato, quanto piú sono sviluppati gli elementi affettivi, tanto piú sono controllabili ed equilibrati gli elementi genetici. Bisogna tenere presente che la dimensione sessuale è legata allo sviluppo dell’età: il momento critico è la pubertà che ha bisogno di evolversi senza traumi, in un ambiente di serenità, di interessi che impegnano, e di molto amore.
Il momento piú esaltante è quello del fidanzamento, in cui deve fortemente prevalere l’aspetto della bellezza, dell’affettività, in modo da vivere da padroni le inclinazioni e gli impulsi strettamente somatici: tutto deve essere vissuto in un clima di presenza di Dio, di preghiera e di vita sacramentale e ascetica.
Il culmine della comunione tra l’uomo e la donna è quello sponsale. « Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne » (Gen 2, 24). L’aspetto estetico, quello economico e quello sociale sono i piú precari e caduchi: è un grave errore decidere un matrimonio in base a questi soli elementi. Poi, è da tenere presente che la vita coniugale, di per sé ordinata alla procreazione, svolge l’attività umana piú alta e degna del piú grande rispetto. Concepire e dare alla luce una vita umana è un capolavoro che ha come collaboratore soltanto il Dio della creazione.
A questo proposito faccio un rilievo e riporto una testimonianza destinata a far riflettere i coniugi: a parità di reddito, la famiglia con un solo figlio è una famiglia insoddisfatta e vive stentatamente; una famiglia con piú figli è felice e non manca di nulla. Io credo a una certa Provvidenza e alla promessa di Gesú di restituire il centuplo. In questa situazione si tratta di una donna e di un uomo che, ad ogni figlio, crescono nell’amore, si sentono ricolmi della gioia che da esso deriva. Sono delle persone umanamente e interiormente ricche. E’ impagabile constatare di volersi ogni giorno piú bene e di dare ai figli il dono di cui sentono il maggior bisogno, cioè l’amore. E’ triste e desolante, oltre che disumano, constatare che al posto di un figlio si compra la macchina nuova, si acquista il salotto piú moderno, addirittura si cambia il televisore.
Aggiungo un’altra affermazione: se nella storia la donna fosse stata considerata per quella che è, e avesse potuto realizzare se stessa, il mondo avrebbe un altro volto.
Continuo il discorso con un rilievo solitamente passato sotto silenzio. C’è una esperienza nella vita spirituale ed è questa: le persone che maturano nella coscienza di essere amate da Dio, maturano anche l’esigenza di amare e di sentirsi amate, rispondendo così al piano creativo di Dio che l’uomo non sia solo e alcomandamento del Signore di amarci come lui ci ha amato.
C’è una pagina della vita spirituale della chiesa che è di una eloquenza unica e sconvolgente: l’esperienza dei grandi mistici. Essi hanno la certezza di essere amati singolarmente da Dio, sono sicuri che la loro grandezza non consiste nei fenomeni straordinari che accompagnano la loro esistenza, e sono tutti d’accordo che ogni battezzato è chiamato alla intimità con Dio, ma quello che ci colpisce in questa loro esperienza sono i loro rapporti uomo-donna. Basta ricordare san Francesco e santa Chiara, san Benedetto e santa Scolastica, san Giovanni della Croce e santa Teresa, san Francesco di Sales e la Chantal. Il grado di intimità umana di queste persone, che si esprime nelle lettere di alcuni di loro, è nei termini della piú profonda affettuosità. E non c’è dubbio che la loro unione con Dio non fosse la piú intensa.
Meraviglia che questo aspetto della vita dei santi sia solitamente sottaciuto e non sia evidenziato il frutto piú bello della grazia della redenzione, che in certo qual senso, riporta la creatura umana allo stato di innocenza originale.
Mistica e Ascetica
Per molti anche questo terna sarà considerato un capovolgimento. Da troppo tempo, nella educazione alla vita spirituale cristiana si è puntato tutta l’attenzione sugli sforzi ascetici che la persona umana doveva compiere per progredire nella virtù. Si dedicavano anni e anni per condurre le anime al distacco, al dominio delle passioni, alla fuga del peccato. Purtroppo, per molte di esse il traguardo era vivere in grazia di Dio, cioè senza peccati mortali sulla coscienza: di cristiano forse c’era soltanto la preghiera; la stessa meditazione era ritenuta valida nella misura in cui veniva mantenuto il proposito, il quale corrispondeva a un impegno ascetico.
Oggi fa molta meraviglia che la perfezione cristiana prescindesse da Dio e non fosse ritenuta, come di fatto è, il frutto della salvezza; direi che fa ancora piú meraviglia che a Dio non si riconoscesse l’iniziativa e che non fosse ritenuto lui il protagonista della salvezza in tutte le sue dimensioni.
Il Dio cristiano è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Come abbiamo già visto, sono Essi i protagonisti della divina Redenzione. E’ il Padre, che, nonostante il peccato originale, ha progettato e preparato la salvezza compiuta da Gesú Cristo e che lo Spirito Santo porta a compimento. Il Dio cristiano è un Dio presente, che opera infinitamente e attualmente in ogni istante della esistenza. E’ Dio che toglie il peccato, e la sua grazia non è qualche cosa di negativo (assenza dei peccato mortale), ma è un dono eminentemente positivo: è la partecipazione alla sua divina natura, è la nostra figliolanza adottiva, di fatto e non di nome, è la sovrabbondanza della vita di Gesú e la presenza dello Spirito Santo che ci danno la capacità di amare come Dio ama.
Tutto questo avviene nel mistero, ma è concreto: questo è “mistico”. Solo questa è la mistica.
Poste queste premesse, è naturale che l’azione di Dio nella persona umana sia al primo posto, e la nostra azione sia una risposta, che siamo in grado di dare solo perché animati, sostenuti e resi perseveranti dall’azione preveniente, concomitante e conseguente (come dicono i teologi) dello Spirito Santo.
Un certo malinteso diffuso negli ambienti di chiesa considerava mistico soltanto tutto ciò che era straordinario nella vita cristiana, come le estasi, le rivelazioni private, la capacità di fare miracoli… La vita mistica, invece, è quella del battezzato che diventa sempre piú cosciente di essere figlio di Dio, di possedere la partecipazione alla vita di Gesú risorto ed è animato dallo Spirito Santo. Questa coscienza lo rende attento alle prerogative inaudite della sua dignità di creatura umana e lo impegna in ogni momento e circostanza a realizzare i rapporti che lo riferiscono a ciascuna delle divine Persone, ingaggiando una lotta seria e costante contro ogni forma di idolatria. Questo termine non deve meravigliare. Ciò che Dio non ha mai sopportato è che ci fossero degli dei al di fuori di sé. Nell’Antico Testamento Dio ha tollerato tutto all’infuori della idolatria; nel Nuovo Testamento Gesú è tutto orientato al Padre.
Gli idoli, oggi, si identificano con il nostro io, con le persone e con le cose. Tutto può prendere il posto di Dio; tutto, invece, deve stare davanti a Dio nella verità della sua realtà. Di qui incomincia la vita ascetica: rinnegare il nostro io in tutta la sua profondità ed estensione, difenderci dalle suggestioni delle attrattive multiformi della persona umana, non essere schiavi ma padroni delle cose.
Il nostro io si insinua in tutta la estensione della nostra persona e cerca una dignità e una libertà che non è quella dei figli di Dio: l’egoismo, l’egocentrismo, un fatuo prestigio, imporre le proprie ragioni in modo prepotente, accogliere solamente quelli che ti lisciano o ti idolatrano, essere preoccupati del giudizio degli altri, eccetera. Sono alcune manifestazioni della prima forma di idolatria. E’ certo che lo Spirito Santo interviene per fare luce in tutti questi meandri e con la sua grazia ci dà anche il coraggio e la forza di ritornare, mantenerci e crescere nella nostra autentica dignità e libertà.
L’altro idolo che può sostituirsi all’unico Dio sono le persone. Dalla loro dimensione estetica a quella sensuale, possono prendere un posto indebito e disordinato nella nostra vita. Nell’ambito del costume attuale, è il campo che richiede la massima vigilanza, la disciplina piú costante e le rinunce piú gravose. Ciò che ho appena detto del rapporto donna-uomo può essere illuminante.
Viene spontaneo un cenno sulla castità per il regno di Dio. Anzitutto è necessario tenere presente ciò che Gesú afferma esplicitamente: « non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso » (Mt 19, 11). La castità perfetta è un dono libero e gratuito di Dio. Perciò, commetterebbe una grave imprudenza chi assumesse questo impegno senza assicurarsi di essere dotato di questa grazia. Per mia esperienza, ritengo necessario il consiglio di un direttore spirituale esperto ed illuminato.
La castità evangelica ha il suo culmine nella verginità, la quale, tanto nell’uomo come nella donna, non consiste semplicemente nella integrità fisica, ma deve essere la conseguenza della chiara coscienza di essere amati da Dio e della pienezza dell’amore per Lui e per le sue creature.
Non è la verginità che genera l’amore, ma l’amore che genera la verginità. Una verginità senza amore può sussistere come autodifesa della propria integrità o anche per ragioni morali, ma questa non è la verginità del Vangelo ed è latente il pericolo che diventi una sterilità e che finisca per esprimere persone insignificanti. Con Gesú concludiamo: « chi può capire, capisca » (Mt 19, 12).
Esiste nel Vangelo una reintegrazione della verginità perduta, che consiste nella pienezza traboccante dell’amore per Dio e per i fratelli. « Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato » (Lc 7, 47); « dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei » (Mt 26, 13). Questo mi pare il senso dell’altra affermazione di Gesú: « In verità vi dico: i1 pubblicano e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio » (Mt 21, 31).
L’idolo per eccellenza dei nostri tempi è il denaro. Gesú usa poche affermazioni perentorie; tra le piú esplicite è quella che dice: « non potete servire a Dio e a mammona » (Mt 6, 24). Al guadagno, al profitto, al superfluo si sacrifica tutto. Gli israeliti, quando adoravano gli idoli, arrivavano al punto di sacrificare i loro figli e le loro figlie. Pare una stoltezza, ma non si fa altrettanto oggi? Per un maggiore benessere si chiude la porta alla vita che vuole spuntare, si uccide la vita appena concepita, si comperano le persone per soddisfare la propria libidine, si dà piú importanza alle esigenze del prestigio sociale che a quelle dell’amore dei propri figli, si arriva a compiere i delitti piú disumani. Questo, poi, riportato in campo internazionale, determina le piú gravi situazioni di ingiustizia, che sfigurano il volto della nostra civiltà.
Veramente è necessario e urgente il ritorno al Vangelo. Il cuore umano deve essere animato dagli esempi di Gesú e dalla forza di cui Egli è la sorgente.
Bisogna liberarsi dall’amore ai soldi: questi devono servire ma non diventare padroni. lo sono solito ripetere che è piú degradante l’amore alle cose che quello, anche disordinato, alle persone.
E’ sufficiente accennare alla povertà evangelica. Gesú dichiara: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli » (Mt 5, 3). E’ chiaro che un cristiano tiene il cuore libero dalla ricchezza e per garantire questo distacco compie volontariamente atti di generosità verso chi ne ha bisogno.
La presenza di Dio, la certezza del suo amore per noi, la preghiera, i sacramenti conferiscono la grazia e la forza per tenere il cuore distaccato dai soldi: l’idolo dei nostri tempi.
Come si constata, è Dio che deve andare avanti con la forza del suo amore di Padre, di Figlio, di Spirito e, poi noi, sostenuti dalla forza della vita nuova saremo in grado di vivere da figli, da fratelli, da amici e dare così un volto umano al mondo in cui viviamo.
E’ evidente che la mistica è prima dell’ascetica.
La preghiera
La preghiera è l’attività specifica della vita cristiana. Della preghiera si danno molte definizioni: tutte hanno qualche aspetto di verità, ma, nel senso del discorso che portiamo avanti, essa va intesa secondo il significato dell’evento della divina Rivelazione.
Il Concilio, nella costituzione sulla Liturgia, ha distinto la preghiera liturgica, quella comunitaria e quella personale. Il tema che io intendo prendere in esame, è la preghiera personale.
La prospettiva non sarà quella dell’uomo che cerca Dio, ma del Dio che cerca l’uomo. Si è tanto insistito sullo sforzo dell’uomo che cerca Dio; ma non si è tenuto presente una realtà che per la rivelazione cristiana è elementare: una lontananza quasi incolmabile del senso delle divine Scritture ha portato degli stravolgimenti che si sono rivelati estremamente dannosi per la vita cristiana
Il “Dio presente” della Bibbia è diventato un Dio irraggiungibile, lontano dall’uomo, per cui era naturale che nascesse il sospetto di un Dio indifferente alle vicende umane. E, se indifferente, perché costringerlo a interessarsi alle nostre persone e alle nostre cose?
La preghiera intesa come ricerca di Dio è normalmente soggetta alle variazioni della creatura umana: prego quando ne ho bisogno, prego quando mi sento, eccetera.
La preghiera, invece, va ricondotta nelle giuste prospettive: è Dio che cerca l’uomo, è Dio che vuole stare con l’uomo, è Dio che trova la sua gioia a stare con i figli degli uomini. Questo fatto è insospettabile, è sorprendente, è destinato a riempire il cuore dell’uomo della gioia piú ineffabile.
Certo che, come per altri aspetti della vita cristiana, questo richiede un capovolgimento di mentalità, che, in certo qual modo, cancelli quanto era ritenuto in passato un patrimonio da custodire gelosamente.
Quanto ho detto sul “Dio presente” va tutto richiamato in questo momento: quando io penso di mettermi alla presenza di Dio, Egli c’è già. Il suo amore infinito è già tutto proteso verso la mia persona e a tutto ciò che mi sta a cuore, non per concedermi delle grazie, ma per donarmi la sua grazia, che, come abbiamo già ripetuto, è una partecipazione reale alla sua vita, al suo essere, alla potenza del suo amore. E’ Padre che mi concepisce e mi realizza come suo figlio; è Gesú che venendo a portarmi la sua vita sovrabbondante, mi comunica la capacità di amare i figli di Dio e tutte le creature con l’amore con cui egli ama il Padre; è lo Spirito Santo che rende attuale il progetto del Padre e l’opera del Figlio. Io non mi sorprendo soltanto alla presenza di Dio, delle Divine Persone, ma anche nel cuore delle meraviglie compiute dal mio Dio in tutta l’estensione del tempo e dello spazio. La preghiera infatti mi mette in comunione con Dio e con le sue creature: « la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8, 19).
Durante la preghiera io mi trovo dinanzi al Dio della salvezza le cui opere e parole non appartengono al passato, ma sono realmente attuali. E’ in questo momento che il Padre mi ama al punto di donarmi suo Figlio: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3, 20), « egli che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci darà ogni cosa insieme con Lui? » (Rm 8, 32). E’ ancora in questo momento che il Figlio mi dona se stesso: « questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2, 20). E’ ancora lo Spirito Santo che in ogni momento diffonde l’amore di Dio nei nostri cuori (cfr Rm 5, 5).
L’atteggiamento di chi prega è mettersi e stare in contatto col Dio presente. A questo punto si pone il problema del raccoglimento, che non va concepito come un vuoto della mente e della fantasia, ma come l’accoglienza dell’iniziativa e dell’azione dello Spirito Santo, che apre il nostro spirito e lo rende disponibile alla presenza e all’azione di Dio.
Questa attenzione e questa disponibilità ci aprono all’amore di Dio, che vuole comunicare tutto se stesso alla creatura umana: il suo essere, la sua vita, la sua potenza e sapienza, la sua tenerezza e bellezza, cioè tutto il mistero insondabile della sua realtà. Ciò che i testi della divina Rivelazione ci dicono di Dio è vero, ma questi non possono manifestare tutta la verità di Dio. Al di là della lettera delle Scritture c’è l’infinito, che sarà rivelato, in pienezza, nella gloria. Ora vediamo come in uno specchio, in figura, nel mistero; ma questa visione è destinata a progredire nella misura della nostra attenzione e disponibilità all’azione dello Spirito, il quale ha il compito di introdurci in tutta intera la verità (cfr Gv 16, 13).
Nasce così il problema della contemplazione, che è la maturazione e il culmine della preghiera. Non è un disimpegno, è invece lasciarci inondare dalla pienezza dell’amore di Dio, diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che urge il nostro essere a rispondere a tutte le sollecitazioni dell’amore: dalla intimità sempre piú profonda con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo, all’impegno di amare i nostri fratelli, le nostre sorelle e tutte le creature.
La contemplazione non è un privilegio, è il frutto naturale del Battesimo e la conseguenza della consapevolezza sempre piú chiara del dono di essere figli del Padre, ricolmi della vita del Figlio e animati dallo Spirito Santo.
E’ giusto chiedersi se nella preghiera personale si debbano esprimere sentimenti particolari. La risposta è affermativa. L’intimità con le Divine Persone e la comunione con le creature suscitano sentimenti diversi.
Le Divine Persone sono protese verso chi è attento e disponibile e, nel momento della preghiera, esprimono e comunicano la pienezza del loro amore. Ora è naturale la risposta che lo Spirito Santo, con gemiti inenarrabili, suscita nei nostri cuori e che si coglie specialmente nella ricchezza e nella varietà dei salmi, dove emergono sentimenti di adorazione, di gratitudine, di perdono, di domanda, di lode e di glorificazione. La docilità allo Spirito Santo ci spinge a fare nostri questi sentimenti al fine di realizzare un rapporto autentico e pieno col nostro Dio.
La preghiera personale non è individuale: ha l’estensione di tutto l’universo creato e redento. E’ bello e gioioso ascoltare il silenzio, pensare di essere la voce di tutto il creato, con lo stupore e la meraviglia, con la lode e la gratitudine; di essere in comunione con chi crede e con chi non crede, con chi soffre e con chi gioisce, con chi è oppresso e con chi opprime, con chi fa il male e con chi fa il bene; di realizzare il piano di Dio e il comandamento di Suo Figlio.
L’ambito della preghiera non termina su questa terra, ma si apre sull’universo della gloria dove la Madre di Dio, gli Angeli e i Santi sono amati da Dio e amano Dio e tutte le sue creature.
La libertà
La libertà non è per il cristiano un problema di psicologia umana, ma un evento di salvezza.
In principio c’è un mistero dei piú sconcertanti: Dio ha creato l’uomo libero, nel senso che gli ha lasciato la facoltà di rifiutarlo; Dio per assicurare all’uomo la libertà ha accettato di essere lasciato da parte. Egli, infinitamente sovrano, si ferma davanti al rifiuto della sua creatura. Dio non impedisce il peccato, che consiste appunto nel rifiutare Lui e il suo piano. Già nell’Antico Testamento gli anziani di Israele andarono da Samuele per chiedergli un re. Samuele turbato si rivolse a Dio. Dio rispose di accontentarli, ma mise in chiaro il significato della richiesta: « costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni piú su di essi » (1 Sm 8, 7).
Come si vede, la libertà è un valore così alto che Dio stesso misteriosamente rispetta; ne deriva una conseguenza molto grave e non facile da intendere: nessuno al mondo può impedire all’uomo di rifiutare Dio, cioè di commettere il peccato. Così nel piano di Dio la libertà diventa un valore assoluto, che praticamente va rispettato come si rispetta Dio. Sul piano esistenziale si pongono dei problemi molto seri che la nostra educazione come la nostra mentalità non sono sempre disposte a rispettare debitamente. Dio, di fatto, lascia liberi gli israeliti di scegliersi un re (cfr 1 Sm 8, 9).
In conseguenza del peccato l’uomo ha bisogno di essere redento. Cristo infatti, instaura per tutti quelli che aderiscono a Lui nella fede e nella carità una condizione di libertà perfetta e definitiva. « Affinché fossimo liberi, Cristo ci ha dato la libertà… voi certo siete stati chiamati alla libertà, o fratelli » (Gal 5, 1. 13); « se rimanete fedeli alla mia parola sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi… se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero » (Gv 8, 32.36). Dunque, la libertà dei credenti è una grazia che va alimentata e resa sicura e stabile con i mezzi che garantiscono una autentica vita cristiana, dall’ascolto della Parola alla preghiera, ai sacramenti e agli impegni di una seria mortificazione.
La libertà per i cristiani corrisponde alla liberazione. La nostra libertà è stata assunta dallo Spirito Santo e innestata nella libertà con cui Gesú ha ubbidito al Padre e volontariamente ha offerto la sua vita per noi, al fine di liberarci dal peccato, dalla legge e dalla morte.
Il peccato è la vera schiavitù da cui Gesú ci strappa. Paolo nella lettera ai Romani descrive quanto fosse dura la tirannia che il peccato esercitava sul mondo, ma lo fa per poi mettere in evidenza la sovrabbondanza della grazia: «ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di piú la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesú Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini… infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di piú quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesú Cristo » (Rm 5, 15-17); « Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre (schiavitù dei peccato) e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per il quale abbiamo la redenzione (la libertà), la remissione dei peccati » (Col 1, 13).
Gesú ci libera dalla Legge. E’ una verità che abbiamo già richiamato: siamo passati dalla economia della Legge alla economia della Grazia. Per quanto sorprendente possa apparire questa affermazione, non bisogna diminuirne l’importanza col pericolo di fraintendere tutto il Vangelo. La vita cristiana non ha piú come norma i dieci comandamenti ma la condizione dei nuovi rapporti personali, con il Padre, con il Figlio, con lo Spirito Santo: siamo figli del Padre, partecipiamo alla vita che ci ha portato Gesú, abbiamo la capacità di amare e, soprattutto, la certezza di essere amati, che ci vengono dallo Spirito diffuso nei nostri cuori. E’ vero che Gesú afferma che dalla legge non sarà tolta neppure una virgola, ma si tratta di una legge nuova, che non è piú estrinseca, ma intrinseca, cioè legata a un fatto vitale che sta alla base di rapporti personali con le Divine Persone: questa legge nuova è compendiata nella carità e noi sotto la mozione dello Spirito, aderiamo ad essa spontaneamente, perché dove è lo Spirito del Signore, lì è la libertà (cfr 2 Cor 3, 17).
Tutto questo era stato previsto dal Profeta, il quale dice: « Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: « Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo » (Ger 31, 31-33
Cristo ci libera dalla morte: la morte è la conseguenza del peccato, ma per la grazia di nostro Signore Gesú Cristo essa ha perduto il suo pungiglione (cfr 1 Cor 15, 17). 1 cristiani non sono piú schiavi dei suo timore (cfr Ebr 2, 14 ss).
A questo riguardo, la liberazione non sarà perfetta se non dopo la risurrezione gloriosa, perché ci troviamo ancora « nell’attesa della redenzione del nostro corpo » (Rm 8, 23), ma in qualche modo i nuovi tempi sono già inaugurati e noi « siamo passati dalla morte alla vita » (1 Cor 3, 14) nella misura in cui viviamo nella fede e nella carità.
Gloria e Lode
La parola gloria appartiene al linguaggio biblico.
La Gloria nella Bibbia ha il significato di peso, di importanza di una persona. In particolare, si riferisce all’importanza infinita che Dio ha nell’ordine del suo essere e del suo agire. Perciò non è soltanto legittimo ma anche doveroso parlare della gloria di Dio.
L’espressione “la gloria di Dio” designa Dio in quanto rivela se stesso nella sua maestà, nella sua potenza, nello splendore della sua santità e nel dinamismo del suo essere.
Una certa mentalità moralistica ancorata ad una teologia astratta ha ridotto in qualche modo le dimensioni di Dio. La preoccupazione rimane quella di non offendere un Dio, chiuso in se stesso, lontano dalle preoccupazioni e dai bisogni dell’uomo.
Ciò che abbiamo detto del Dio storico, del Dio presente, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, traboccanti di vita e di amore incontenibile, rischia di ridurre la vita di fede a una mera preoccupazione morale e di esattezza dottrinale, privando dello slancio, dello stupore, della gratitudine che si deve provare davanti a un Dio meraviglioso che compie meraviglie.
L’Antico Testamento è la storia delle meraviglie di Dio, come abbiamo piú volte ricordato: in tutte le sue parole e in tutte le sue opere Egli manifesta la sua gloria. Essa appare sul monte Oreb, splende nella liberazione degli israeliti, esplode sul monte Sinai, è presente nella nube e si manifesta in tutti i momenti dell’intervento di Dio in favore del suo popolo. Quando Salomone consacra il nuovo tempio la “gloria di Dio” lo inonda.
La gloria di Dio è la potenza di Dio a servizio dei suo amore e della sua fedeltà.
Nel Nuovo Testamento la gloria è legata alla persona di Gesú: Egli è lo splendore della gloria del Padre ed è immagine della sua sostanza (cfr Ebr 1, 3). « E Dio che disse: Rifulga la luce nelle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2 Cor 4, 6); « e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3, 18); « parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il re della gloria » (1 Cor 2, 7-8).
Tutta la vita di Gesú è segnata dalla gloria. Alla sua nascita gli angeli cantano gloria; al battesimo i cieli si aprono per glorificare il Cristo; le folle manifestano il loro stupore e il loro entusiasmo per le parole di Gesú e i suoi miracoli. La gloria di Cristo rifulge in modo singolare nel mistero della Trasfigurazione, dove il suo volto brilla come il sole e le sue vesti diventano candide come la luce.
Un momento significativo, anche se enigmatico, è quello della Passione e Morte di Gesú, che soprattutto Giovanni interpreta come glorificazione: « è giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto… se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve il Padre mio lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome. Venne allora una voce dal cielo: “l’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”… io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » (Gv 12, 23 ss.). Gesú stesso dirà ai discepoli di Emmaus: « non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? » (Lc 24, 26).
La gloria di Gesú si manifesta in un modo unico nel mistero della sua Risurrezione. Il Padre, nella potenza dello Spirito, dà una vita nuova al suo Figlio. Gesú non è un morto che rivive, come Lazzaro; il corpo di Gesú è investito della pienezza della vita di Dio, ed Egli è costituito Signore e Capo di quanti credono in Lui. Gesú, veramente, possiede la gloria che aveva fin da principio.
La gloria di Gesú è definitiva nella vita eterna: « il Figlio verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli » (Mc 8, 38); il Nuovo Testamento è tutto proteso verso questa « apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Gesú Cristo » (Tito 2, 13).
La gloria di Dio esige la lode. Il Dio della divina Rivelazione è grande, è potente, è magnifico, è pieno di amore, di tenerezza e di fedeltà. L’atteggiamento che si prova davanti a questo Dio è di adorazione, di gratitudine, di fiducia, di abbandono e di lode. La vita del cristiano deve spalancarsi alla lode del suo Dio. Se non si prova l’urgenza di lodare la gloria di Dio, non si è compreso il Dio cristiano. Il sentimento della lode di Dio è l’atteggiamento fondamentale del cristiano.
Cerco di rendere questo pensiero in un modo paradossale: il primo dovere del cristiano non è l’osservanza dei comandamenti; la lode della gloria di Dio viene prima e va oltre i comandamenti, perché proclama un Dio che toglie il peccato dal mondo e rimette il peccato: questa è la bella notizia, questo deve essere predicato in tutto il mondo, a lode della gloria di Dio.
Dio che perdona è piú grande della creatura che nella sua fragilità umana commette il peccato.
La chiesa ci educa a dare gloria a Dio con lo strumento privilegiato della Liturgia. Al termine di ogni salmo ci fa recitare il “gloria Patri”; durante tutte le celebrazioni ci fa esprimere la nostra ammirazione e la nostra lode con la parola “alleluia”, che dice la pienezza traboccante di una gioia indicibile. Ci introduce nelle “preci eucaristiche” facendoci cantare “l’inno di lode” oppure “l’inno della tua gloria”, che è il Sanctus. Le stesse preci eucaristiche terminano con la solenne dossologia: « per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni ,onore e gloria per tutti i secoli dei secoli ». In questo momento la lode è nelle nostre mani, nei segni e nelle parole, che l’assemblea ratifica con il solenne “Amen”.
La nostra lode sarà piena e ineffabile, quando vedremo Dio “faccia a faccia” e Cristo consegnerà il Regno al Padre e Dio sarà tutto in tutti.
Eucarestia
La pienezza della lode della gloria di Dio è espressa nel mistero eucaristico; questo mistero, in sintonia con lo svolgimento e il contenuto di queste pagine, è eminentemente trinitario ed è la fonte dell’impegno della vita cristiana.
Le tre affermazioni appariranno evidenti nella struttura delle Preci Eucaristiche: la seconda è la piú semplice e la piú chiara. Leggiamola.
“Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
Egli, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi. Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: Prendete, e bevetene tutti. questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione dei tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua Presenza a compiere il servizio sacerdotale. Ti preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Come si vede, il testo ha un andamento chiaramente e decisamente trinitario. Noi ci rivolgiamo al Padre perché effonda lo Spirito e lo Spirito trasformi i doni, il pane e il vino, nel corpo e sangue di Gesù Cristo.
Quindi l’eucaristia non si riduce alla sola presenza dei Cristo sotto i segni dei pane e del vino, ma è il termine della presenza e dell’azione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. L’evento dell’unità delle Divine Persone è attuale nella celebrazione della liturgia eucaristica, sorgente e culmine della loro storia e della loro opera.
Diventa pure chiaro che la trasformazione del pane nel corpo e del vino nel sangue di Gesù, mentre è significata dalle parole del racconto dell’ultima Cena, avviene tuttavia per l’azione del Padre che opera per mezzo del suo Spirito.
Si ha così un momento privilegiato della fede nel mistero trinitario, destinato a spalancare gli orizzonti sulla pienezza della divina Rivelazione.
La celebrazione eucaristica è il memoriale, cioè rende presente in modo solenne, della Morte e Risurrezione del Figlio di Dio. In passato si sosteneva che la Messa era l’atto con cui la Chiesa rinnovava il sacrificio della Croce; mentre è chiaro che si fa memoria di tutto il mistero di Gesù, della sua morte e della sua risurrezione: sarebbe vana la morte del Signore se Egli non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede e la predicazione del Vangelo (cf 1 Cor. 1 5, 14).
La Preghiera eucaristica continua con una affermazione che dà pieno senso alla Rivelazione e alla vita cristiana: la presenza del Padre e il servizio sacerdotale.
Abbiamo affermato che il Dio cristiano non è tanto un Dio esistente, ma un Dio presente. Il Padre realizza un momento della sua presenza in modo sacramentale, concreto e sensibile a questo punto della celebrazione eucaristica. La nostra gratitudine, con tutto il complesso dei sentimenti della fede è rivolta al Padre presente, che sta donandoci il Figlio nello Spirito.
Il popolo cristiano che è un popolo sacerdotale, in questo momento esercita il suo ministero, con l’offerta al Padre, nella grazia dello Spirito, del pane della vita e del calice della salvezza.
In questa prima parte della celebrazione chiediamo esplicitamente che lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo: una grazia che risponde al piano di Dio e al comando del Signore. Ogni celebrazione liturgica ha un senso comunitario e contiene una grazia particolare di comunione fraterna, per questo si chiama assemblea e attualizza un momento della Nuova Alleanza. E’ da notare che l’invocazione allo Spirito avviene in due momenti: prima della Consacrazione, perché santifichi i doni del pane e del vino; dopo la consacrazione perché santifichi l’assemblea.
La preghiera continua pregando per il Papa, per il Vescovo, per la chiesa perché sia perfetta nell’amore; prega per i nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione; prega per noi tutti perché godiamo della misericordia di Dio per avere parte alla vita eterna insieme con la beata Vergine Maria e con tutti i santi.
Nel capitolo precedente ho tentato di mettere in evidenza il compito e il dovere primario della creatura umana di dare lode alla gloria. Le Preci Eucaristiche esprimono questa finalità: la lode della gloria di Dio non è il finale della celebrazione ma è il fine. Questo è un aspetto non ancora adeguatamente evangelizzato e non ancora entrato nella coscienza e nella spiritualità sia di molti celebranti come dei fedeli.
La Preghiera conclude: «per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen».
L’Amen conclusivo ha un significato incalcolabile. Si può affermare che l’assemblea vi esprime il culmine della sua prerogativa sacerdotale. E’ la ratifica di tutto ciò che è avvenuto nella celebrazione, è il “sì” a tutte le parole del celebrante, è la manifestazione del proposito di vivere fino in fondo il senso della vita cristiana. Per un motivo pedagogico mi permetterei di suggerire, che almeno nelle Messe festive, l’Amen sia cantato.
La celebrazione termina con la comunione eucaristica. Essa prende senso già dalla preghiera del Signore: il Padre nostro. Si tratta concretamente di figli raccolti intorno al Padre. Dal contesto, ciò che risulta piú significativo non sono le singole invocazioni, ma il grado di unione tra fratelli. A questo ci dispone l’atto che stiamo per compiere in risposta al comando del Signore: «prendete e mangiate»; «prendete e bevete».
Il corpo e il sangue di Cristo non sono una cosa, ma una persona. Prendere e mangiare sono l’espressione di una assimilazione destinata a fare una cosa sola: «come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,22).
Senza forzature si può affermare che il modello della comunione eucaristica è la comunione delle Divine Persone.
La comunione non è un atto di devozione e tanto meno un momento di intimismo; ma è un rapporto vitale tra persone.
S. Agostino ha una espressione diventata classica: «prendi e mangia e non temere di trasformare me in te, ma sarò io a trasformare te in me» (Confessioni). Del resto San Paolo aveva già detto con chiarezza: «non sono piú io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Quindi è un evento di amore tra persone: le Divine Persone e la persona di tutti i partecipanti all’assemblea. E’ una cascata di amore: parte dal Padre, attraverso lo Spirito, si esprime nel mistero pasquale del Figlio e tende ad espandersi a tutti i fratelli e le sorelle. E’ lo Spirito Santo che ci immerge nel vortice travolgente dell’amore delle Divine Persone, al fine di rendere operante l’evento della Salvezza.
La comunione è il momento privilegiato nel quale ciascuno di noi diventa, in forma partecipata, modello e sorgente del mistero di Cristo, che tende a raggiungere tutti coloro che Dio vuole salvare e che incontriamo sulla nostra strada: siamo modello perché conformati a Cristo e quindi esemplari; siamo sorgente perché saturi della vita di Cristo diffondiamo la sua grazia; anche con la sola presenza.
In questo senso la comunione eucaristica diventa un impegno al servizio della diffusione e della crescita della vita cristiana.
Il servizio nella chiesa non è una semplice attività esteriore, ma una irradiazione del divino.
L’immersione nel divino non ci isola dal quotidiano, ma ci dà la capacità di leggere il senso delle situazioni e degli eventi e di scoprire i rimedi piú efficaci per orientarli secondo il Vangelo.
Quindi il servizio risponde al senso della Incarnazione: «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della beata Vergine Maria e si è fatto uomo».
Oggi si dà la massima importanza alla dimensione della testimonianza e si fa pacificamente coincidere con qualsiasi forma di impegno sociale o di servizio al prossimo: bisogna però evitare il pericolo dell’attivismo e dell’efficientismo e di credere che qualsiasi impegno, politico, economico, culturale possa sostituire l’opera della salvezza o renderla piú efficiente. Purtroppo questa mentalità è molto diffusa.
La testimonianza ha bisogno di essere interiorizzata e la comunione eucaristica deve essere sempre piú il punto di riferimento e la sorgente di ogni impegno cristiano: solo così si raggiunge lo scopo della salvezza che è quello di dare lode alla gloria di Dio e di adempiere il comando del Signore di amare i fratelli come lui ci ha amati
Recensione di Monsignor Scabini
Testamento come dice il Card. Martini o come piace all’autore testimonianza che sia, è un libro puntuale e, finalmente, ingenuo. Che un vescovo, all’indomani del suo passar la mano nel ministero di pastore della diocesi, metta a nudo le radici della sua esistenza e contesti amabilmente non poche regole del gioco appare una ingenuità. Se lo è ha il timbro dell’autenticità, quella evangelica. Da qui il fascino di una scrittura (e di una lettura) rapida, essenziale, contagiosa che aiuta a arrivare sino alla fine con gioia e ricorrente gratitudine.
Ciò che da mons. Ferrari, vescovo di Mantova fino allo scorso anno e prima di Monopoli, viene annunciato perché di vero annuncio si tratta è il nucleo profondo e un pò naif del cristianesimo, il suo cuore vivo. La «religione pura e senza macchia» non è un complesso di verità intellettuali, al contrario è una storia viva che narra l’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e porta ad adorare il mistero della divina Compagnia nel «frattempo», segnato dalla fatica e vivificato dalla speranza della«patria» in cui Dio sarà tutto in tutti.
Il tentativo di sistematizzare in categoria umane gli eventi mirabili che creano un rapporto vivo tra le Persone divine e le persone umane è «impossibile e irrazionale. Purtroppo, questo tentativo è durato per molti secoli e ha dimostrato largamente il suo fallimento il cristianesimo imbrigliato in queste strutture si è impoverito paurosamente. Il contenuto della divina Rivelazione espresso in termini intellettuali è un sistema di verità astratte lontane dalla vita e private della loro capacità salvifica» (p. 21).
Parole chiare e anche dure motivo dominante di una diagnosi severa «la chiesa lungo i secoli non ha resistito alla tentazione di procurarsi delle sicurezze umane» (p. 22) e di una terapia rigenerante. Ma a caro prezzo. Perché liberarsi di tante bardature e di mettere nella bisaccia del pellegrino solo ciò che conta, il Libro e il Pane necessario è possibile solo a coloro ché amano intensamente. Amano perché sanno di essere amati: «Io sono una persona amata» (p. 15). Persone, dunque, integralmente mature dove fede e vita sono in simbiosi.
Se l’amore unisce, tutta la vita è unificata e viene sottratta al rischio ambiguo della frammentazione. La conoscenza è soprattutto un’esperienza dove la dimensione affettiva risulta la componente più importante (p. 60) la mistica viene prima dell’ascetica e di questa è la forma matura (p. 84); il pregare è soprattutto un contemplare (p. 88) la libertà risulta un valore assoluto che praticamente va rispettato come si rispetta Dio (ps 91); la vita si risolve in perenne liturgia, un canto gioioso del «trisagio» unito a quello che cantano le schiere celesti (p. 98). L’A., vescovo attivamente partecipe dei lavori del Vaticano II, confessa che impressionante fu la più alta liturgia che sia mai stata celebrata- il «sanctus» cantato da tutti i vescovi del mondo all’unisono con il canto dei salvati, quello di Ap. 4,8 (p. 13)
Si potrebbe osservare che qui manca lo spazio dovuto alla complessità, all’evoluzione dell’esistenza storica, con la facile conseguenza di svicolare verso formule radicali. Anche il giusto rifiuto dell’intellettualismo non può significare privarsi della razionalità che ha pur bisogno dell’intelligenza e delle sue elaborazioni. Ma sorge subito il dubbio che anche questa sia un’operazione di intellettualizzati. Non piccolo pregio del libro è di demitizzare le proprie sicurezze.
E’ qui che le regole del gioco vengono scompigliate. Non sta bene che i vescovi vengano reclamati per impegni che nulla hanno a che fare con il loro compito specifico, il mistero della parola (pp. 69-70). Non ha senso che i preti continuino a identificarsi con coloro che esigono «cose pratiche» (p. 14) quasi a conferma di una drammatica povertà così la definisce lo storico A. Riccardi della formazione avuta in alcuni seminari pre-conciliari. Non è credibile l’amore di un uomo e di una donna che separano il loro dall’amore di Cristo e al posto di un figlio comprano la macchina o il salotto più moderni (p. 77). È sconcertante che i cristiani, compresi religiosi e religiose, ignorino che il culmine della conoscenza di Dio sta nell’intimità d’amore che implica di essere persone amabili (p. 75). Non sono la verginità, la coniugalità o la ministerialità che generano l’amore ma è l’amore che genera l’una e le altre (p. 82).
Il lettore non mancherà di segnarsi l’una o l’altra frase o di scegliersi i capitoletti che vanno dritti a toccare la sua sensibilità, come accade quando si leggono i libri sapienziali. Non conta la rigorosità dell’apparato intellettuale e, meno ancora, va ricercato un puntiglioso ordine schematico che si vuole logico. La logica della sapienza è diversa imprevedibile. Come imprevedibile è l’invito dell’A. ai vescovi: siano, senza restrizioni, dei veri contemplativi.
Ecco, un po’ più di vescovi, e non solo loro, del disimpegno (verso un’attivismo frenetico) e della Trinità, come da sempre, con affettuosa ironia, è descritto mons. Ferrari.
Pino Scabini
Recensione di Padre Lisi
Mons. Carlo Ferrari era stato vescovo di Monopoli (BA) negli anni 1952-1967, allorché fu trasferito alla sede di Mantova, dove è rimasto fino al 1986. Essendo libero dagli impegni episcopali per avere raggiunto i limiti dell’età canonica, ha voluto sintetizzare i punti più salienti del suo pensiero teologico e della sua diuturna predicazione al popolo. Grazie a questo libro, del suo magistero potrà beneficiare un uditorio più vasto.
Il perno del suo insegnamento è la esaltante verità rivelata della nostra figliolanza divina: «La vita cristiana non consiste nell’osservanza della legge, ma nel rapporto personale con il Padre e con il Figlio e con lo Spirito Santo» (p. 54).
Applicando con serietà e coerenza questo principio fondamentale, I’A. giunge a conclusioni pratiche anticonformiste in campo morale e pastorale. Soltanto due citazioni esemplificative. «Certamente quando Gesù ha detto: “In questo riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore vicendevole” [Gv 13,35], non intendeva che gli uomini amassero gli uomini e le donne amassero le donne» (p. 74); «È evidente che la mistica è prima dell’ascetica» (p. 84).
Questa testimonianza ci appare anche come il testamento spirituale di un grande vescovo della Chiesa italiana negli anni immediatamente pre e post-conciliari.