Istanbul, 6-11 febbraio 1972 per le suore della scuola italiana
Come viene naturale, questa meditazione ha per tema l’obbedienza, poiché vogliamo entrare nel mistero cristiano. E’ qui dove si celebra, dove si compie il progetto di Dio. Rifacciamoci a nostro Signore Gesù Cristo, alla sua persona, al suo mistero. Sappiamo che la interpretazione più profonda di questo mistero ci é data da san Paolo nella lettera ai filippesi. “ Abbiate in voi gli stessi sentimento che furono in Gesù Cristo, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che é sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo é il Signore a gloria di Dio padre”
E’ detto, é descritto il mistero dell’obbedienza di Gesù Cristo , ma dobbiamo rilevare gli elementi. Iddio non vuole annientarci. Iddio non vuole essere signore su di noi, per diventare il padrone che aumenta sempre di più il suo possesso. Il Signore chiede la nostra sottomissione fino alla morte e alla morte di croce, per poterci rendere partecipi della sua vita. Quindi il Signore non vuole per avere, ma vuole per dare. In questo passo é espresso chiaramente come Gesù annienta se stesso fino alla morte di schiavo. Immediatamente dopo, san Paolo dice: “per questo Iddio lo ha esaltato e gli ha donato il nome che é al di sopra di ogni nome, perché ogni lingua confessi che Gesù é il Signore a gloria di Dio Padre.
Quando noi sentiamo parlare della Gloria di Dio, siamo tentati di pensare a qualche cosa che ritorna a vantaggio di Dio. La Gloria di Dio é lo splendore della sua presenza, é il fulgore della sua ricchezza, é lo straripamento della pienezza del suo amore che si manifesta a noi e che comunica a noi. Quindi la Gloria di Dio é un bene nostro. Questo é il mistero di Gesù. E sappiamo che lo ha realizzato nella sua vita, particolarmente nella sua passione e morte. Guardate che ogni volta che incontriamo la difficoltà di sottometterci, dobbiamo accostandoci alla meditazione della passione di nostro Signore Gesù Cristo per trovarne i motivi, le indicazioni, le ragioni e soprattutto la forza e la grazia.
Dopo il Concilio é stato molto esaltato il mistero della pasqua. Noi dobbiamo tenere presente che la risurrezione c’é perché c’é stata la morte e c’é stata la sepoltura. La pasqua é un unico mistero. Poiché il cristiano, a cominciare dal battesimo, é consepolto con Gesù Cristo per poter risorgere con lui, il cristiano arriverà alla risurrezione, alla nuova vita, alla partecipazione alla vita di Dio se sarà partecipe della morte di nostro Signore Gesù Cristo, se sarà conforme a nostro Signore Gesù Cristo. Per questo l’apostolo Paolo dice: “abbiate in voi gli stessi sentimenti che sono in Gesù Cristo”.
Gesù non solo con la sua vita diventa il il modello e la sorgente della nostra sottomissione, ma dà un comandamento esplicito: “ se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Altrove Gesù dice: entrate per la porta stretta perché larga é la porta e spaziosa é la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano in essa. Quanto stretta ed angusta é la porta che conduce alla vita e pochi sono quelli che la trovano. San Luca riporta le parole di Gesù in questo modo: “sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete.
Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel Regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel Regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi » Parole misteriose di Gesù però sufficientemente chiare per farci intendere che, se vogliamo entrare nel Regno dei Cieli, dobbiamo passare dalla porta stretta.
Com’é l’obbedienza nella chiesa e conseguentemente nella vita religiosa. L’ubbidienza nella chiesa e nella vita religiosa si concepisce soltanto come movimento verso l’unità, come sforzo per costruire l’unità, perché l’unità é il progetto di Dio. L’obbedienza non deve essere concepita in un modo individualista, come per esempio: io sono ubbidiente perché dipendo da Dio attraverso la volontà dei superiori. Ma, io sono obbediente in quanto mi conformo al progetto di Dio per formare una cosa sola con i miei fratelli e sorelle. E’ presto fatto un atto di adorazione o un atto di sottomissione davanti a Dio, ma bisogna che questo atto abbia senso secondo il progetto di Dio, quindi abbia senso ecclesiale, abbia senso comunitario.
Capite che, se é un vescovo che parla di questo argomento, il vescovo si trova in imbarazzo perché é un superiore. Nostro Signore Gesù Cristo dà subito una buona lezione a noi che abbiamo un posto nella chiesa e che nella chiesa abbiamo la responsabilità di compiere delle azioni nella sua stessa persona, e ci dice: voi non dovete essere come quelli che comandano e dominano in mezzo ai popoli. Voi dovete essere servi dei vostri fratelli. Io non sono venuto per essere servito ma per servire e per dare la mia vita per la salvezza di tutti. Questo é l’atteggiamento che Gesù ci inculca a chiare lettere e,perché non dimenticassimo la lezione, compie un gesto estremamente significativo. Alla vigilia della sua passione, prima di celebrare il banchetto pasquale, si cinge un grembiule, fa portare un bacile di acqua e lava i piedi ai suoi apostoli.
Pietro, che doveva diventare il capo, che aveva intuito che servire non era un bel mestiere, -che avrebbe preferito essere portato sulla sedia gestatoria con tanto di flabelli! non vuole che Gesù gli lavi i piedi. Gesù gli dice: se non ti lavo i piedi , tu non entrerai nel Regno dei Cieli. E conclude: voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, Signore e maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi.
Naturalmente questo riguarda i discepoli, ma particolarmente coloro che della sequela di nostro Signore Gesù Cristo fanno un programma della loro esistenza, e coloro che dovrebbero essere i “perfectores” della sequela di nostro Signore Gesù Cristo, i quali sono sempre messi da parte. E’ quindi un servizio. Io, come tutti gli altri predicatori degli esercizi, un tempo, definivo i superiori come i custodi della regola. Adesso non mi sento più di dire la stessa cosa. Ritengo che i superiori debbono essere gli animatori della regola, coloro che animano la regola nello spirito di nostro Signore Gesù Cristo, che é spirito di amore e di servizio.
Il concilio, quando per il vescovo definisce che non ha soltanto ha il potere di santificare ma anche di insegnare e governare e che questi poteri gli derivano dalla consacrazione sacramentale, dice una cosa estremamente importante. Dice che quando un servizio deriva da un sacramento, porta con sé una grazia. Allora il potere é essenzialmente una grazia per aiutare gli altri a convergere verso l’unità. Allora l’autorità é una grazia per aiutare i fratelli a convergere verso l’unità.
Capite che la grazia é una espressione di nostro Signore Gesù Cristo? Che é dolce e mite di cuore? La grazia non é «dura!» Noi l’abbiamo simboleggiata in tanti modi più o meno appropriati, ma la grazia non é una cosa aspra. La grazia non é una cosa che si condisce con l’umore. E’ difficile, molto difficile, estremamente difficile non metterci dentro il nostro umore, comunque rimane una grazia per aiutare gli altri a concorrere nel senso dell’unità. Analogamente per i superiori, non in virtù di un sacramento, ma secondo la natura della vita comunitaria.
I superiori hanno un compito e una grazia che non sono sacramentali per aiutare i propri fratelli o sorelle a costruire l’unità. E’ una responsabilità grande, é un compito gravoso che richiede di annientarsi come il grano di frumento per poter dare i suoi frutti. Questo senso del servizio non é ancora sufficientemente “entrato” ! …per due motivi: 1) non siamo stati educati a vedere superiori e inferiori, superiori e sudditi e c’è ancora questo linguaggio molto equivoco
2) diventare servi in mezzo ai propri fratelli richiede un rinnegamento assoluto e profondo che resiste a tutte le prove, per cui non si fa mai il tentativo di “erigerci” ma ci invita continuamente a sforzarci di stare “dentro, al centro, al crocicchio”, dove si muove la carità, dove passa la carità che raggiunge tutti. Questo é difficile. Andare d’accodo con uno che é d’accodo con noi, e ottenere l’obbedienza, da quel uno, non é impresa difficile. Per ottenere la obbedienza, che significa armonizzazione con tutti, ci sono delle difficoltà. L’armonia si fa con note che non sono sullo stesso rigo.
Questo servizio nella comunità religiosa lo si compie in mezzo a persone adulte. Non voglio scoraggiare i superiori. Le persone adulte debbono dimostrarsi adulte proprio con quel senso di responsabilità per cui concorrono, già per loro conto, ad edificare l’unità. Si tratta di persone adulte e allora bisogna che partecipino alla responsabilità dei superiori per costruire l’unità. Corresponsabilità: é rendere partecipi del “governo”, é rendere partecipi del servizio comune reso ai singoli membri della comunità, perché si edifichi l’unità.
Come si diceva per un settore più estrinseco alla persona e più esterno della vita di ciascuno, nella piccola comunità o nella comunità media, tutti dovrebbero essere corresponsabili dell’andamento amministrativo, perché si sentano impegnati ma anche perché é un diritto. Se sono persone adulte non debbono essere trattate come bambini. Non possono, non hanno il diritto di spogliarsi della loro responsabilità. La loro responsabilità se la devono tenere, perché é intrinseca al fatto si essere persone adulte e quindi responsabili, tanto più responsabili nel settore dell’andamento della vita comunitaria.
Io riconosco benissimo che queste sono parole belle e non perché é facile dirle. Riconosco che quando si tratta di impegnare i membri di una comunità, piccola o grande che sia, é una faccenda seria. Cerchiamo di essere realisti, seri, responsabili nel riconoscere che non siamo stati formati in questo senso, per cui tutta la responsabilità dell’andamento di una casa dipende dai superiori e gli altri hanno il dovere di tacere. E’ storia passata.
Oggi con l’aggiornamento si fanno passi nel senso che dicevo, ma sono passi compiuti da persone che, quanto al senso di responsabilità, potrebbero essere rimaste all’età del noviziato e che nel noviziato potrebbero avere fatto qualche passo indietro. Quindi ci troviamo di fronte a manifestazioni di infantilismo. E’ ripugnate entrare in certi dettagli della vita comunitaria, in certe manifestazioni “piccine” che in effetti hanno la loro importanza. Per esempio, prendiamo la mancanza di coraggio di una sorella, la quale vede o sente e non sa dire con umiltà e semplicità e senza zelo quello che va opportunamente detto. Il vangelo ci dà una regola molto chiara circa l’ammonimento fraterno. Lo leggiamo in Matteo: “Se il tuo fratello commette una colpa, và e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te uno a due persone, perché ogni casa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo alla comunità” .
Manca il tempo per dare una interpretazione esatta di queste parole, comunque cerchiamo di coglierne il senso generale. Siamo persone che dobbiamo maturare e dobbiamo accogliere come normale che una sorella possa fare una osservazione ad una sorella – sempre secondo prudenza – mentre a volte capita che, non avendo il coraggio di dire una cosa alla persona interessata, la si va a dire alla superiora o al vescovo. Io non accetto mai un prete che viene a parlare male di un suo confratello. Lo mando via. Non capita, perché lo sanno. Non é detto che con questo metodo io ho rimediato a tutte le situazioni, no, per lo meno non nasce nei sacerdoti il sospetto che ci sono degli insufflatori.
Siete comunità di persone adulte ma bisogna diventare adulti. Come sono le persone adulte? Sapete come sono le persone adulte nelle vostre famiglie. Vedete come sono le persone adulte nel mondo. E vedete che in certe comunità le persone adulte non hanno una età spirituale e morale e psichica corrispondente a quella cronologica. C’è un altro punto importante e delicato. Uno dice: io faccio la volontà dei superiori quindi sono sicuro di fare la volontà di Dio. Io non mi sentirei di essere il rappresentante della volontà di Dio.
San Benedetto nella sua regola afferma che l’abate fa le veci di Cristo. La vita della Abbazia benedettina é una organizzazione singolare. L’abate é benedetto. La benedizione era conferita ad un monaco che poteva anche non essere sacerdote. Adesso c’é la presenza del ministero sacerdotale e siamo già su un altro piano. La benedizione dell’abate é un’azione liturgica che impegna tutta la Chiesa a pregare per chi é investito di quell’ufficio.
Sant’ Ignazio diceva che il suddito doveva stare davanti al suo superiore come un morto“ad maiorem gloria dei”. Non voglio sminuire il significato che hanno queste manifestazioni. Indubbiamente, per lo meno, indicano una gerarchia nel valore dell’autorità. Altra cosa é il comando che mi viene dal papa, vicario di nostro Signore Gesù Cristo, che però esercita il carisma soltanto una volta o forse neppure una volta in vita sua. C’é anche il carisma del vescovo, che non é dotato della infallibilità, e per di più deve essere in comunione con tutti i vescovi e con il papa.
Il carisma di una madre generale non so dove sta, quando i membri dell’istituto sono ventiduemila! Non so quale é il rapporto personale attraverso il quale viene tessuto il legame dell’unità, che ci deve essere in tutta la comunità. Per questo io non concepisco le comunità che vanno al di là delle dimensioni personali. Ci dovrebbero essere province autonome caratteristiche con una fisionomia particolare data dalle persone e dall’ambiente. Ho toccato un tasto. Se qualcuno di noi non intende quanto ho detto nel suo giusto valore, potrebbe anche scalzare alla radice il principio dell’obbedienza.
C’é una comunità da guidare nel senso dell’unità? Per me vale la condotta di Dio con il popolo di Israele così ribelle. Per me vale la sua pazienza, il suo saper attendere. Se noi gettiamo un seme nella terra dobbiamo aspettare una stagione oppure tutte le stagioni. Il frumento si mette nella terra in autunno, ci passa sopra il sonno dell’inverno, poi c’é il risveglio della primavera e si miete in estate. Questa legge non deve essere rispettata anche nella maturazione delle persone? Questa legge é certamente rispettata nella economia della salvezza. Se Dio é tanto paziente nell’attendere. Se Dio si può definire «colui che aspetta» noi dobbiamo trarre le nostre conclusioni.
OM 445 Istanbul 72
Istanbul, 6-11 febbraio 1972