Quando Mons. Ferrari fece il suo ingresso a Mantova stavo studiando a Milano. A casa tornavo raramente. Ne lessi la cronaca sulla Gazzetta.
Passarono diversi anni, e di lui sapevo le settimane pastorali – vi partecipai dall’inizio e gli aneddoti che circolavano sul suo conto. Non gli avevo mai parlato.
Lo vidi comparire inaspettatamente accompagnato dal segretario don Regis, ad inaugurare la mostra “Le Madri Contadine” allestita con le mie alunne nella sede ancora vuota del Museo Diocesano.
Gli avevo mandato il cartoncino d’invito per buona educazione non speravo certo che venisse davvero, anche perché aveva fama di sottrarsi a cerimonie e a taglio di nastri di ben altra portata.
E invece eccomelo di fronte: lui sorridente e io commossa e stupita di tanta benevolenza. Le mie figlie avevano allora una due e una tre anni: mostrò subito per loro molta tenerezza, ricambiato dall’affetto spontaneo e per nulla formale che è proprio dei bambini.
Quando, qualche mese dopo, venne a cena a casa nostra, avevo fatto mille raccomandazioni perché fossero educate e gentili e salutassero “Riverisco Eccellenza”. Poco prima del suo arrivo le sorpresi a litigare: “Stupida, cretina, eccellenza…”
Lo raccontai a Mons. Ferrari quando Cecilia, in barba all’etichetta, gli si arrampicò sulle ginocchia e non ne scese per buona parte della serata.
Peccato che fossero solo due: un giorno mi chiese con molta spontaneità se non pensavamo di regalare a Cecilia e ad Elisa un fratellino. Chissà, forse pensava al “suo” Seminario. Ancora una volta, mi sorprese la sua libertà.
Seguì le bambine passo passo nel loro cammino di fede, al punto che da loro stesse venne una richiesta insolita. Quando fecero la Prima Comunione, appena uscite di chiesa espressero il desiderio di andare a salutare “il vescovino”, che era già alla Casa del Sole. Lo chiamavano così, con un diminutivo di tenerezza, come si fa con i nonni.
Il colpo di grazia alle formalità però lo diedi io quando era ancora vescovo titolare, con una solenne arrabbiatura.Era l’epoca delle lettere di Paolo Salvaterra e compagnia sulla Gazzetta di Mantova.Un giorno ne uscì una particolarmente dura ad opera di un sedicente gruppo di preti. Ne fui molto rattristata e non sapevo come fare per comunicare al Vescovo il mio affetto e la mia solidarietà, dato che mi era stato tassativamente vietato rispondere in forma scritta. Comperai un mazzo di fiori (si era sul finire dell’inverno) e mi recai in Curia.
Entrai in soggiorno. Stava recitando il vespro con don Regis e suor Luisa. Mons. Ferrari mi fece cenno di aspettare.
Finita la lettura del breviario, rimasti soli, non mi lasciò il tempo di aprire bocca: “Quei fiori non li voglio. Sono soldi sprecati”. Avvampai. Glieli piazzai sulle ginocchia dicendogli: “E invece lei li tiene, perché se Maria Maddalena ha potuto spendere tanti soldi per Gesù, io potrò ben spendere due lire per il mio Vescovo”. E scoppiai in lacrime.
Rimase disarmato. Mi consolò, tenne i fiori e fiorì un rapporto del tutto nuovo e inconsueto.Una sera mi telefonò a casa personalmente. Suonò il telefono: “Pronto, buonasera, sono il Vescovo”.
Già questo suo presentarsi diretto mi lasciò di sasso. Continuò: “La aspetto domani alle 11 in Curia. Venga e saprà perché”. Non riuscii a conoscere il motivo di quella improvvisa convocazione. Avevo scuola e non potevo dire al preside: “devo assentarmi per una ragione che non so”. Chiesi a un collega di entrare in classe al mio posto e lasciai di nascosto la scuola.
Mi trovai in Curia in mezzo a una marea di preti: unici laici Vittorina Gementi ed io. Era l’annuncio della nomina episcopale di Mons. Volta.
Avendo io conosciuto poco Mons. Poma, stentai a rendermi conto appieno di quanto i tempi fossero cambiati e di quanto sconcerto creasse la libertà di Mons. Ferrari da consuetudini ormai superate.
Quando mi chiese di tenere una delle tre relazioni del Convegno diocesano in preparazione al Convegno di Loreto, non pensai al fatto che ero la prima donna che parlava in Seminario. Risi di cuore quando seppi che alcuni preti chiedevano in giro a quale ordine religioso appartenessi.
Eppure il volto più autentico di Mons. Ferrari lo conobbi successivamente, quando divenne Vescovo emerito.
Dolce, tenero, affettuoso, paziente, sensibilissimo, intuizione viva sintetizzata in poche parole. Desiderio di leggere, conoscere, vedere, ascoltare. Attenzione e premura per le persone al di là di ogni gerarchia e ruolo. Pensiero contemplativo sobrio ed essenziale e coraggio di annunciare senza compromessi e cedimenti di sorta “il Dio cristiano”. Finché non aveva ben chiare le situazioni pensava, ascoltava osservava. Quando aveva capito, andava dritto alla meta.
Da lui ho imparato che cosa sia ” ‘la libertà dei Figli di Dio” .
prof.Anna Orlandi Pincella
“La Cittadella 13 Dicembre 1992
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