Parlare del Vescovo di Mantova non è un’impresa semplice. Forse proprio a causa della sua estrema semplicità. Semplicità nel parlare, nell’agire, nel giudicare, nell’accostarsi agli altri, nell’affrontare con impegno i problemi anche più gravi. Che cosa si può dire, in fondo, di una persona la cui caratteristica peculiare sembra essere la semplicità?
Se poi uno si prende la briga di scavare un po’ più a fondo, si accorge però che quella semplicità è tutt’altro che semplice. Nel senso che non può essere scambiata per semplicismo. Ma è frutto di molte cose abbastanza complesse a descriversi e assai più a realizzarsi. Come: intelligenza, sensibilità e senso dell’umorismo; ma anche: interiorità, spirito di orazione, capacità di autodominio, “sapientia cordis”, apertura agli altri “discernimento degli spiriti” e – sopra tutto – grande e autentica carità.
Anch’io quando l’ho conosciuto, tanto tempo fa (erano gli anni del primo dopoguerra) sono stata subito colpita da quella sua semplicità di tratto. Una semplicità accattivante, che ispirava fiducia, che denotava un’attenzione partecipe e una sostanziale accettazione dell’altro. La semplicità del “buon pastore”, come veniva fatto, inconsapevolmente, di pensare, subito al primo incontro. In seguito, quando ho avuto occasione di conoscerlo più da vicino, è accaduto anche a me di scoprire, non senza una qualche sorpresa e con alquanto conforto, di che cosa fosse sostanziata quella sua apparentemente congenita semplicità.
A quel tempo don Carlo Ferrari era un giovane sacerdote già molto apprezzato negli “ambienti cattolici”, ecclesiastici e laici, della diocesi di Tortona per la sua pietà, la sua cultura, il suo zelo pastorale. Si diceva di lui e di un altro suo confratello (don Aldo Del Monte, attuale Vescovo di Novara) al quale era legato da grande amicizia, che erano due sacerdoti ”aperti”. In realtà essi andavano divulgando già allora – senza iattanza ma con grande convinzione – molte delle idee che il Vaticano II avrebbe più tardi propugnato e sancito.
Realizzavano una predicazione “giovane”, aperta, dinamica: attenta alle problematiche e al linguaggio del tempo e tuttavia saldamente ancorata alla tradizione della Chiesa e alle indicazioni del Magistero. Predicavano la fedeltà a Dio e all’uomo, I’ascolto della Parola e l’attenzione ai segni dei tempi. Suggerivano e predicavano la “discrezione” e l’aggiornamento; si sapeva che andavano ogni tanto a “ricaricarsi” (cosa abbastanza inusitata a quell’epoca) nell’abbazia di Beuron o di Maredsous o presso qualche altra “centrale” benedettina. Facevano, in sostanza, un discorso di evangelizzazione e di promozione umana.
Don Carlo divenne ben presto noto per la “qualità” della sua direzione spirituale, nella quale traduceva le doti e lo stile di cui si è detto. Si diceva di lui che esercitava una direzione alla Francesco di Sales o alla Don Marmion. Credo che siano legioni le persone che lui ha guidato, con sapienza illuminata e con paziente discrezione, sulla strada della “conversione a Dio” E che ne serbano una memoria fattiva, sostanziata di gratitudine.
Oltre che dei chierici (come professore e direttore spirituale in seminario), dei giovani sacerdoti (come rettore del loro convitto) e delle suore (come confessore e cappellano) si occupava anche della assistenza alla gioventù femminile, collaborando a varie opere diocesane e particolarmente all’Azione Cattolica. E’ in quella sede che io l’ho conosciuto. Come dimenticare la grande assise del “Convegno azzurro”, che vide affluire alla collina del “Castello” di Tortona, nel giugno del ’46, diecimila giovani entusiaste, provenienti da ogni parte della diocesi? Fu, quell’avvenimento, un’esperienza tangibile di “nuova catechesi” E ad essa collaborò fattivamente, in prima fila accanto a don Del Monte che l’aveva ideata e di cui condivideva la creatività pastorale, anche don Ferrari.
La sua “carriera” successiva in diocesi si muove tutta sulla linea di quelle iniziali premesse. Non ci sono stati, nella sua vita tortonese, eventi di grande risonanza esteriore. Qualcuno ha detto di lui che “viveva assai più intensamente di dentro che di fuori” . Spero che non suoni irrispettoso affermare che la sua “dimensione interiore” si è andata dilatando con il sopravvenire della maturità. Ed è quella che ha fatto di lui un maestro ed una guida. Decine di sacerdoti hanno portato e portano tuttora, in diocesi e fuori diocesi, l’impronta della sua guida illuminata, ferma e serena, promanante da una sua personalità ricca di sensibilità e calore umano e venata di sottile umorismo. Quel suo modo caratteristico di “prendere in giro ” era un attestazione inequivocabile – e come tale veniva immancabilmente recepito – di benevolenza e di bontà. Ma la caratteristica che colpiva maggiormente in lui era la sua totale, incondizionata disponibilità. Chi aveva un dubbio da risolvere o un problema da affrontare, chi era prostrato dal dolore o dalla solitudine, chi aveva bisogno di consiglio, di illuminazione o di conforto sapeva con certezza di trovarlo disponibile ad ascoltare, a condividere, a confortare.
Tra i suoi interessi prevalenti, sul versante culturale, è da rilevare l’attenzione perseverante rivolta allo studio della Bibbia, anche questo in un tempo che vedeva appena gli inizi di quel risveglio di interesse che si sarebbe poi manifestato negli anni successivi. Certamente io non sono, per difetto di competenza in merito, la persona più adatta a sottolineare adeguatamente i risvolti culturali e pastorali di questa chiara propensione di monsignor Ferrari per gli studi biblici. Ma so per certo che per me, come per altre persone più o meno digiune come lo sono io in materia, il suo costante e appassionato riferimento ai grandi temi biblici è servito a risvegliare la “coscienza” del problema e a suscitare il desiderio di un approfondimento personale.
A questo punto delle mie “considerazioni e reminiscenze” su monsignor Ferrari mi accorgo che ho sempre parlato di lui al passato, come se egli non… fosse più tra noi. In effetti, quando nel maggio del 1952 si diffuse a Tortona la notizia della sua imminente consacrazione episcopale noi pensammo che era stata fatta “una buona scelta ” ma ci sentimmo addolorati presentendo il vuoto della sua assenza – perché non sarebbe stato più tra noi. Bisogna dire che, fisicamente, la predizione si è avverata (qualcuno, in vena di scherzare, osserva che da allora, a Tortona, lo si è “visto col binocolo”). Ma poiché, grazie allo Spirito Santo, I’amicizia, il ricordo, la preghiera e la sollecitudine pastorale funzionano anche a distanza, noi tutti, nonostante siano trascorsi venticinque anni, lo sentiamo ancora “con noi”.
di prof. Elvira Rocca – tortonese
“La Cttadella”, 1977