Devo a Lui
d’essere ancora nella Chiesa
Al Vescovo Carlo, alle sue virtù e fors’anche a qualche suo limite, io devo l’essere rimasta nella comunione ecclesiale in quegli anni ’70, che hanno visto molti cattolici italiani allontanarsene forse per sempre.
Ed ora voglio dirne qualcosa di più, non senza lo struggimento che la circostanza induce.
La prima volta, lo vidi una domenica mattina quando già nominato nostro Vescovo, ma non ancora insediato capitò in Curia, sembra del tutto improvvisamente e mobilitando non so più quale monsignore a convocare subito in Piazza Sordello i responsabili delle Associazioni cattoliche; poiché ero la vicepresidente della FUCI e si sapeva che avevo con altri l’abitudine d’andare in S. Andrea alla Messa di don Piva, fui subito rintracciata.
Ci accolse al 1° piano del Palazzo Vescovile con informalità insolita e promettente, non scevra d’una certa ritrosia che manteneva spesso, a segno, io credo, della mai vinta timidezza.
Quando mi chiese “E tu, chi sei?”, eravamo vicini ad una delle grandi finestre che guardano la piazza e fu inevitabile riferirsi alle sue bellezze e vicende; io, anche, – secondo mia indole e atmosfera allora corrente (s’era alla seconda metà degli anni ’60) – gli ricordai, provocatoria, che lui era l’unico feudatario rimasto ormai ad abitarla; “Ah – fece in modo sorpreso e forse addolorato – sei una contestatrice!”, ma prima di andarcene fece in modo di tornare a darmi la mano.
Fu il nostro “imprinting”.
Io, per anni, non persi un’occasione di provocarlo, in pubblico e in privato, parlando, scrivendo, non risparmiandogli nessuna imbarazzante autodenuncia: per chi votavo cosa pensavo della pillola, del divorzio, dell’aborto e quant’altro mi divideva dalla disciplina ecclesiale italiana, e tuttavia continuavo a fare la Comunione.
Lui, non s’irrigidì mai e alludeva alle provocazioni solo in occasioni cordiali e personali. Una volta che qualcuno gli disse che potevo essermela presa per come aveva risposto a un mio intervento alla Settimana pastorale, mi fece telefonare dal segretario per scusarsi e dirmi che non intendeva proprio offendermi – né io in realtà me l ‘ero presa, ma la cosa mi rivelò ch’eravamo diventati amici perché solo due amici possono dissentire, dibattere ed anche contrapporsi, senza fare né provare offesa.
Il resto, fu tutto “in discesa”: da quando nel ’78 tranquillizzò il Terzo Ordine Francescano che nonostante tutto si poteva ammettermi, a quando, trovatami tra i detenuti in via Poma (dove insegnavo da un paio d’anni e lui veniva per uno spettacolo teatrale allestito coi carcerati), quasi ridendo mi disse «Figurati, se non t’avrei trovata in un posto come questo!», all’ultima volta che ci parlammo, a S. Silvestro, dove s’era trasferito da poco. Infatti, diventato Vescovo Emerito, quale segno anche molto simbolico della mia gratitudine, gli avevo regalato una lettera assai bellache un prelato, divenuto celebre negli anni ’70 per aver lasciato il proprio Ordine, m ‘aveva una volta scritto in materia di Eucaristia e Comunione ecclesiale. Ricevutala, mons. Ferrari mi aveva prontamente telefonato (questa volta personalmente…) e invitata ad andarlo a trovare.
Parlammo un paio d’ore, proprio felici, io di spiegargli finalmente che la sua pazienza mi aveva salvata dall’uscire dalla chiesa più di quanto il suo supposto “disimpegno” non me ne avesse tentata, e lui di sentirselo dire.
Congedandomi, gli chiesi se ora che s’era liberato dell’ufficialità potevo invitarlo a cena con la mia famiglia e lui accettò con entusiasmo: non l’ho poi mai fatto, ma per una quantità di motivi che di certo lui mi abbuonerebbe. Magari scotendo un poco la testa come si fa coi figli difficili e prediletti, sicuro comunque di trovarci ad ogni Cena del Signore che ancora mi resta.
prof.Ivana Ceresa
”La Cittadella”, 6 Dicembre 1992