Giovedì della settimana santa in sant’Andrea- Missa Chrismatis
Fratelli nel sacerdozio battesimale, fratelli nel sacerdozio presbiterale, con questa celebrazione noi vogliamo fare memoria in modo liturgico sacramentale della sera e del momento in cui è nato il nostro essere di cristiani, il nostro essere di presbiteri, di diaconi, di vescovi. Siamo nell’ambiente del cenacolo, nell’atmosfera di ciò che sta per accadere nel cenacolo.
Di tutto questo noi dobbiamo fare memoria, ripeto, con la memoria della liturgia, un’azione sacra nella quale siamo impegnati per riprodurre in noi – non in un modo artificioso ma in un modo estremamente reale, misteriosamente reale – la sorgente di tutto il nostro essere consacrato a Dio, in Gesù Cristo e nella forza dello Spirito per la salvezza del mondo, perché si realizzi il disegno di amore del Padre di richiamare intorno a sé tutti i suoi figli dispersi.
E’ indispensabile, allora, che noi diventiamo quello che celebriamo. Forse si potrebbe anche dire: diventiamo ciò che siamo, per il sacramento del santo battesimo e della cresima o della sacra ordinazione per cui siamo diventati ministri di Dio. Che cosa siamo? Non vogliamo andare a cercare la nostra identità nel vivo delle discussioni o nelle conclusioni della teologia. Andiamo a cercare la nostra origine dove veramente siamo stati concepiti e partoriti per la forza dell’amore di Dio, che si è manifestata nella croce di nostro Signore Gesù Cristo. L’atmosfera del cenacolo è tutta soffusa da ciò che dovrà accadere. Gesù anticipa nei segni quello che dovrà vivere nella realtà della sua persona.
Siamo chiamati – tutta la chiesa – tutti noi che ci accostiamo ai sacri misteri del corpo e del sangue di nostro Signore Gesù Cristo, tutti noi che celebriamo questi misteri, ognuno con il proprio sacerdozio a diventare quello che siamo per la volontà misteriosa e misericordiosa del nostro Dio che ci ha chiamato. Si dice che noi sacerdoti si agisce in “persona Christi”. E’ forse meglio dire che la persona di Cristo ha, in certo qual modo, assunto la nostra persona: le nostre braccia, le nostre mani, il nostro cuore, tutto il nostro essere per farlo diventare sacerdotale, orientato a Dio per la salvezza dei fratelli.
Ciò che Gesù ha anticipato nel cenacolo lo vivrà nel vivo della sua persona, nel vivo della sua umanità. Il tempo della sua passione e morte è tutto un combattimento contro le forze del male e contro la morte conseguenza del peccato. Nel Getzemani Gesù agonizza e in questo agonizzare, in questo combattimento ha paura, suda sangue, sente ripugnanza e una grande mestizia. Tutto si concluderà- lo sappiamo- con la risurrezione, però attraverso la morte, attraverso l’agonia.
Non ci dobbiamo meravigliare, miei cari fratelli nel ministero sacro, che ci siano dei momenti in cui il nostro combattimento ci porta fino all’agonia. Non ci dobbiamo stupire, non dobbiamo andare a cercare le cause negli uomini, nell’ambiente o da qualunque altra parte. Le dobbiamo ritrovare in noi stessi, perché Gesù vive in noi il suo mistero. Perché Gesù vive i suoi misteri! La chiesa durante la storia del suo peregrinare agonizza e noi vertice o cuore della Chiesa – se si può dire così- non dobbiamo meravigliarci di essere introdotti nel mistero della agonia di nostro Signore Gesù Cristo.
Gesù vive quello che ha istituito: la santa Eucaristia è la sua passione e morte. Egli sarà flagellato, incoronato di spine, sputacchiato e, ciò che è avvenuto nel Capo deve avvenire in noi che partecipiamo della grazia del Capo del Corpo che è Chiesa. Questo che è normale e caratteristico della nostra persona non lo dobbiamo subire. Dobbiamo viverlo coscientemente in un modo impegnato.
Gli sputi in faccia, la corona di spine, i flagelli sul dorso! Quando abbiamo ricevuto tutto questo? Quando troviamo normale tutto questo? Se in vari modi nella vita concreta quotidiana che noi viviamo, per rendere viva la presenza di nostro Signore Gesù Cristo, andiamo incontro a queste mortificazioni, dobbiamo ritenere normale la mortificazione di noi stessi per corrispondere alla realtà per cui Cristo vuole vivere in noi.
Ci sarà il momento della desolazione. Gesù Cristo è inchiodato sulla croce dove veramente dona il suo corpo per la Chiesa, dove veramente versa il suo sangue per la sua Chiesa, per purificare la sua Chiesa, per mondarla dal peccato, per renderla una sposa gloriosa. Ci pensiamo attraverso quale solitudine è passato nostro Signore Gesù Cristo in quelle ore nelle quali ha atteso la morte come una liberazione? Pensiamo a quando, pesantemente inchiodato sul legno della croce, anche la presenza del Padre si fa assenza ed entra in quella solitudine per cui con le ultime forze che gli rimangono esclama: Dio mio perché mi hai abbandonato?
Si parla della solitudine del prete. Si può parlare della solitudine del cristiano, ma noi dobbiamo riferirci alla nostra sorgente: a colui per il quale siamo, a colui per il quale operiamo, a colui per il quale esercitiamo il nostro ministero. La nostra vita è Cristo lo possono dire tutti i battezzati ma lo dobbiamo dire particolarmente noi e quindi, non dico accettare e sopportare, ma ripeto ancora, accogliere, introdurci, portarci dentro con la forza che ci viene dallo Spirito Santo che ci è stato dato largamente nella nostra ordinazione, per essere veramente conformi a nostro Signore Gesù Cristo.
Tutto questo aperto sull’orizzonte della risurrezione. Se partecipiamo alla morte e sepoltura di nostro Signore Gesù Cristo, parteciperemo anche alla sua risurrezione, non soltanto quando chiuderemo gli occhi della fronte per aprire quelli dello spirito alla visione di Dio, ma anche qui su questa terra per le certezze che si radicano sempre di più nella nostra persona, per la sicurezza che ci viene dalla testimonianza dello Spirito Santo dato abbondantemente e largamente a ognuno di noi, per cui sappiamo che attraverso la croce e la morte andiamo verso la vita, una vita che è già incominciata, una vita di cui abbiamo le primizie, una vita che si svolge in noi e che è vita per Dio.
Capite, miei cari quale impegno di interiorità, quale impegno di silenzio, quale impegno di deserto e di desolazione, quale impegno di mortificazione, quale impegno di preghiera deve nascere in ciascuno di noi proprio come frutto di questa concelebrazione che significa per noi la più bella giornata dell’anno liturgico. Lasciamoci attrarre dalla persona di nostro Signore Gesù Cristo e pensiamo che Gesù in persona vuole vivere nella nostra persona per il bene dei fratelli e per l’amore del Padre.
Rimaniamo un istante in questi pensieri, facciamo sì che passino nel profondo del nostro spirito, che si radichino nel nostro cuore per diventare nostra vita. Così, proseguendo nella nostra concelebrazione ci incontreremo con Gesù e saremo più profondamente lieti, conformati a lui che ci ha scelti e ci ama e ci predilige e vuole avere bisogno di noi per annunciare il suo vangelo nel mondo.
OM 697 Giovedì Santo 77