Chiunque nella Chiesa si sia trovato a vivere, in età adulta e non troppo distrattamente, gli anni del Vaticano 2° (’62-65), e abbia quindi un ‘ esperienza personale delle stagioni che lo hanno preceduto, accompagnato e seguito, sa fino a che punto e per quanti diversi aspetti il Concilio è stato un’occasione storica e una proposta esplicita e solenne di metanoia, di conversione a tutti i livelli, di cambiamento di rotta per tutta la Chiesa, a cominciare dai Padri conciliari. Senza, beninteso, che questo significasse rottura con la tradizione apostolica, esprimeva anzi una continuità e fedeltà più vere ai valori della tradizione ricevuta.
La proposta del Concilio era per tutti, ma non tutti tra gli stessi Vescovi erano nelle condizioni migliori per saperne cogliere la fecondità e la novità, tanto meno le ricadute che se ne potevano prevedere nella vita della comunità cristiana.
Non tutti, com’è ovvio, ebbero le stesse forti motivazioni ad accogliere tale proposta e a farla propria in tutta la sua ricchezza. Ho motivo di pensare che, tra i Vescovi italiani, mons. Ferrari fosse dei più preparati alla novità del Vaticano II, per almeno due ragioni.
Anzitutto per la sua abituale frequentazione degli autori di teologia spirituale (in particolare Scheeben, Marmion, Chautard, Pollien) che portavano per primi nel mondo della vita spirituale quei semi di rinnovamento che poi sarebbero maturati nelle quattro grandi Costituzioni del Concilio (posso esserne buon testimone avendo conosciuto mons. Ferrari già negli anni del seminario quando egli era padre spirituale).
Ancora più importanti i contatti del giovane Carlo Ferrari con il movimento biblico e liturgico, particolarmente vivace in quegli anni in Belgio ma anche in Francia e in Germania, mentre in Italia vivacchiava ai margini – dove era alimentato dalle abbazie benedettine, e aveva la sua espressione più qualificata nella rivista Lumen vitae, (cui mons. Ferrari rimase abbonato fino al termine del suo episcopato).
Non erano molti i Vescovi di quegli almi ad aver fatto un simile apprendistato, che senza dubbio lo aveva predisposto nel modo migliore a capire e ad accogliere il rinnovamento e la conversione che il Concilio sollecitava; e poi a fare di lui un vero “convertito” del Concilio stesso.
Per amore di chiarezza, richiamo in forma schematica le conversioni più importanti a cui il Concilio via via chiamava con il procedere dei suoi lavori e accenno ad alcune espressioni che esse hanno avuto nella vita e nel ministero del Vescovo Ferrari:
1- Da un atteggiamento a dominanza dottrinale alla svolta di “un magistero a carattere prevalentemente pastorale” (Giovanni XXIII nel discorso di apertura).
«Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori, spesso li ha anche condannati. Ora tuttavia la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della miseiricordia piuttosto che della severità» (ibid.)
Posso dare in proposito due testimonianze, diseguali ma convergenti, di questo cambiamento nell’esperienza di mons. Ferrari.
– La prima è quasi un’indiscrezione: nel periodo di preparazione al Concilio, a tutti i vescovi fu inviato un questionario nel quale tra l’altro si chiedeva di esprimere i loro “desiderata” verso il Concilio stesso. Tra questi mons. Ferrari volle inserire la condanna solenne del comunismo ateo. Alla mia osservazione che tale condanna era già stata pronunciata da Pio XII, rispose che una nuova condanna da parte del Concilio sarebbe stata molto più autorevole e avrebbe avuto maggior risonanza nel mondo.
Come è noto, il Concilio si concluse senza questa né altre condanne.
– Altro episodio di cui sono stato testimone: nei primi anni del suo ministero a Monopoli, il Vescovo Carlo si propose di “bonificare” una devozione e religiosità popolari, che sebbene molto radicate nella tradizione locale, si erano venute impoverendo di contenuti cristiani e si presentavano infarcite di attese miracolistiche e di pratiche superstiziose. E pensò di incominciare dai simboli classici di quella religiosità: le immagini, vale a dire le statue della Madonna e dei santi, esposte alla venerazione dei fedeli nelle chiese e che venivano portate in processione nelle ricorrenze festive. Statue che in realtà erano solo dei manichini, abbigliati più o meno riccamente con abiti di epoche e gusti diversi, mentre solo la testa e le mani erano scolpite nel legno o modellate in cartapesta. Mons. Ferrari fece allora valere una disposizione tuttora in vigore: le statue dovevano essere in materia nobile (legno, marmo o bronzo) e collocate su un altare di cui fossero titolari.
Apriti cielo. Non racconto la mezza insurrezione popolare che ne scaturì. Il Vescovo tenne duro e la spuntò nella maggior parte dei casi. Fu vera gloria?
Qualche anno dopo il trasferimento a Mantova, che cosa trovò proprio nella sua cattedrale? Sia detto con tutto il rispetto: un altro manichino, agghindato nelle vesti della Madonna Incoronata.
Questa volta si guardò bene dall ‘ aprire le ostilità. Non solo perché memore della precedente esperienza, ma perché nel frattempo c’era stato il Concilio. E con ciò non voglio certo insinuare che il Concilio abbia autorizzato la tolleranza delle brutture in chiesa, se mai ha proposto di usare altri rimedi meno drastici per arrivarci, e di aiutare la gente a capire dove ci sono brutture o improprietà o comunque mascherature del messaggio cristiano e del vero volto della Chiesa, che quindi sarebbero da sostituire con “segni” migliori.
-2. Dalla rivelazione come dottrina alla rivelazione come storia della salvezza.
Questo passaggio è segnato soprattutto dalla Dei Verbum, che modifica profondamente una situazione precedente, a proposito della quale scrive mons. Ferrari: ” Diventa difficile comprendere come di una storia si sia potuto fare una dottrina, la quale è diventata oggetto per tanti secoli, della teologia, della catechesi e della predicazione” (11 Dio cristiano, pag. 26). Questa operazione – si può aggiungere era talmente diffusa e radicata che ancora oggi si riesce a parlare di “storia della salvezza” come di una sintesi dottrinale invece che di una vicenda di rapporti interpersonali: tra le divine Persone e ogni credente che per la fede e il battesimo sia inserito nel popolo di Dio, il quale è a sua volta “comunità di persone”.
In ogni caso, non è frequente neppure oggi che si sappia parlare di storia della salvezza con quel realismo personalistico che è stato un carisma di mons. Ferrari. Carisma che caratterizza un po’ tutta la sua predicazione del dopo – Concilio stesso e che, anche a distanza di decenni, tradisce spesso l’emozione di una scoperta, forse nel suo caso antecedente il Concilio, ma che nel corso del Vaticano 2° si è arricchita di significati, motivazioni e sviluppi fino a diventare una costante del suo magostero e il cuore pulsante di tutto il suo episcopato.
Di qui la sua insistenza nel richiamarsi alle divine Persone, “i soli veri protagonisti della salvezza”, insistenza che gli ha valso l’appellativo di “Padre Carlo della Trinità”.
Di qui la sua essenzialissma proposta cristiana, ricavata da Dei Verbum, e che, parlando ai vescovi della Lombardia, esprime così: «E’ una storia bellissima, che apre alla fiducia e all’ abbandono; è una storia essenziale, ricchissima di forti battute:
1. con questa divina Rivelazione Dio visibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici;
2. si intrattiene con essi;
3. per invitarli e ammetterli alla comunione con se .
A questo Dio che parla si deve una risposta di fiducia e di abbandono totali, com’è detto al n. 26 della Dei Verbum :«L’aspetto caratteristico di queste affermazioni è che le parole, cioè Dio che parla, sono un evento e gli eventi sono parole. In questo modo è dichiarato con evidenza che quella della salvezza non è tanto una dottrina ma una storia, che ha Dio come protagonista, e le sue meraviglie sono il linguaggio con cui vuole mettersi in comunicazione con il suo interlocutore: la persona umana».
Da questa percezione personalistica della storia della salvezza, strettamente ancorata nel mistero delle divine Persone, scaturiscono le scelte pastorali di mons. Ferrari in rapporto a tre situazioni che esigono – a suo dire – il suo più serio impegno. Esse sono:
– un certo infantilismo delle nostre comunità in corrispondenza al fatto che la quasi totalità dell’impegno era rivolto (all ‘ inizio degli anni ‘ 70) a ragazzi e adolescenti
– una catechesi’ prevalentemente nozionale, che non poteva considerarsi vera educazione alla fede;
– la necessità di differenziare e qualificare le modalità di una seria evangelizzazione e catechesi degli adulti, considerando che la maggior parte di loro non sono abitualmente praticanti
Di qui le scelte preferenziali corrispondenti: la catechesi degli adulti; la valorizzazione del “resto fedele”, cioè dei gruppi cristiani chiamati a irradiare il vangelo “per contagio” ispirandosi alla pedagogia di Dio nell’Antico Testamento; I ‘ istanza “esperienziale”, cioè insita in “una vita traboccante dell’azione dello Spirito Santo” di ogni vera catechesi.
3. Dal primato della gerarchia alla centralità del popolo di Dio
E’ noto che la schema originario della Lumen Gentium proposto ai Padri, ancora legato ad una concezione piramidale della Chiesa, prevedeva dopo un primo capitolo dedicato al mistero trinitario, che il secondo capitolo trattasse della gerarchia e il terzo del popolo di Dio. Il lavoro dei Padri ottenne, non senza difficoltà e contrasti, che si operasse un’inversione tra secondo e terzo capitolo: prima il popolo di Dio considerato nella sua totalità, poi la gerarchia che a questo popolo appartiene ed è al suo servizio. E’ ciò che Congar ha chiamato “la rivoluzione copernicana” del Concilio. Mons. Ferrrari ne fu quasi choccato, certo fortemente stimolato a riflettere e a trarne le logiche e pratiche conseguenze.
Così si esprime su questo tema ne “Il Dio cristiano” con riferimento al n. 9 della Lumen Gennum: «Il popolo di Dio è costituito da membri dotati della dignità e della libertà dei figli di Dio. Nell’ordine della salvezza non esiste dignità più grande: tutto è inferiore. Il Papa, i Cardinali, i Vescovi sono nell ‘ambito della salvezza in quanto figli di Dio, non possono avere una dignità più alta». E, con più forza ed evidenza chiarisce a pag 21 di Noi Vescovi del Conilio: «Quello della dignità è un lungo discorso nella Chiesa, ma tanto il Papa come i Vescovi, se vogliono salvarsi, debbono possedere la stessa dignità dell’ultimo battezzato. La Iibertà poi è guardata con un certo sospetto: spesso se ne ha paura. E’ vero che è un mistero, ma lo è anche quello di Dio, ed è Lui che ha voluto correre il rischio che l’uomo gli potesse dire di no. La libertà di Dio è sovrana ed infinita ma egli stesso per primo rispetta la libertà dell’uomo.
«Quante volte è registrato nella scrittura l’invito: ‘Se vuoi”! Sono ancora molti coloro che non accettano la libertà come un valore assoluto. La libertà, come diceva il teologo (Pino Colombo, ndr ), è la “cifra” di ognuno di noi e non si può cancellare senza distruggere la nostra persona. Quanti attentati si compiono ancora oggi nella Chiesa contro la libertà dei figli di Dio!
«Della verità invece si è fatto un assoluto: ci siamo talmente allontanati dalla lettera e dallo spirito della divina Rivelazione per cui la libertà è diventata quasi la quarta persona in Dio … e I’ottavo sacramento!
«Vero è solo Dio, vere sono le divine Persone, veri sono i loro rapporti, vere sono le opere che compiono come le parole che dicono; dunque la verità esiste ma non in astratto.»
E ancora ne 1l Dio cristiano così precisa il posto della gerarchia nel popolo di Dio: «Non bisogna confondere i poteri sacri con la dignità; questa è nell’ordine del fine, quelli sono nell’ordine degli strumenti. Perciò è logico che la gerarchia fosse definita come servizio» (pag. 67).
Qui mi viene spontaneo osservare: la prospettiva del servizio non era, prima del Concilio, tra le più presenti al Vescovo Carlo: sia per ragioni di temperamento sia soprattutto per l’impostazione educativa del seminario negli anni della sua formazione. Il suo servizio lo aveva bensì esercitato, e con grande dedizione, fin dalI’inizio del suo ministero, ma era chiamato con altri nomi es. – direzione spirituale – ed era inteso più come leadership. Il Concilio fu per lui una riscoperta forte e concreta della dimensione del servizio. Standogli accanto per lunghi anni, ho avuto modo di constatarlo in diverse espressioni del suo ministero mantovano, caratterizzato da nuova umiltà e più rispettosa attenzione alle esigenze delle persone.
4. Dalla Chiesa percepita come “struttura gerarchica” alla Chiesa mistero e sacramento di comunione
E’ quasi un corollario di quanto già detto sopra, ma l’importanza che questo spostamento d’accento acquista nella visione del Concilio e nell’ esperienza di mons. Ferrari vuole una sottolineatura. «La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell ‘unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium I ). Quindi è, prima di tutto, un mistero da credere e da contemplare, un’opera dello Spirito da assecondare. La sua finalità sacramentale – la comunione – antecede per importanza ogni specificazione o finalizzazione.
Riporterei a questa percezione-convinzione particolarmente forte in mons. Ferrari due caratteristiche del suo ministero, più evidenti negli ultimi anni:
1) I’affermazione – tante volte ripetuta e forse poco compresa – del primato della mistica rispetto all’ascetica: poiché la salvezza è anzitutto opera di Dio, che il “vuoto” e la “passività’ della contemplazione attirano in noi, mentre il “pieno”, I’agitazione e la presunzione del fare le sono spesso di ostacolo
2) una certa relativizzazione dello stesso impegno pastorale, se inteso come determinante per l’efficacia salvifica, o comunque improntato a una sopravvalutazione dei mezzi umani.
5. Dalla Chiesa come realtà e proposta autoreferenziale alla Chiesa per il Regno di Dio nel mondo
E’ sembrato a molti che i temi della Gaudium et Spes, con la sola eccezione della famiglia, non fossero particolarmente presenti al Vescovo Carlo. E’ vero, ma solo in un senso molto riduttivo e persino improprio. E’ più esatto dire che non erano direttamente o tecnicamente presenti al suo impegno pastorale, nel senso che egli non si sentiva personalmente coinvolto nella ricerca delle vie e dei mezzi più idonei a evangelizzare realtà come la cultura, la politica, I’economia.
E non mancava, in questo, di buone ragioni. Era sua convinzione, suffragata da fatti e considerazioni a non finire, che in anni recenti la Chiesa si fosse troppo e indebitamente esposta nei riguardi della politica: fino a utilizzare come suo braccio secolare il partito dei cattolici, adattandosi quindi ad una logica di potere che è tutt’altro da quella del servizio evangelico.
Il Concilio – con la Lumen Gentium e la rivalutazione del popolo di Dio e del sacerdozio battesimale, e più in particolare con la Gaudium et Spes e il riconoscimento della legittima autonomia dei laici nell’ordine temporale – gli dava le ragioni teologiche e pastorali di un diverso atteggiamento.
Bisogna scavare almeno un poco, a questo proposito, nel cosiddetto “disimpegno” di mons. Ferrari. “Vescovo del disimpegno”, se per impegno si intendono—come egli stesso precisa – le “direttive pratiche” tante volte invocate (negli anni ’70 ma sempre meno in seguito); se per impegno si fa passare il sostituirsi ai laici in ciò che a loro compete magari invocando necessità di supplenza che nessuno avverte e che comunque andrebbero comunitariamente verificate, se per impegno insomma venga accreditata qualche vecchia o nuova forma di clericalismo.
Ma”Carlo Ferrari Vescovo dell’impegno” se questo significa per esempio riscoperta teologica e pastorale della famiglia, già negli anni ruggenti della contestazione quando I ‘ attenzione di tutti era calamitata su altri temi.
Vescovo dell’impegno, nella scelta di evangelizzazione o rievangelizzazione degli adulti perché siano a loro volta evangelizzatori: la più impegnativa delle scelte che si possano immaginare. Ecco a questo proposito un passaggio significativo su l ‘oratorio, dalle meditazioni ai vescovi della Lombardia: «Mi permetto di far presente che il compito educativo delle nuove generazioni non è legato al sacramento dell’Ordine ma a quello del Matrimonio. Cedere la direzione dell’oratorio a genitori preparati è un superamento del clericalismo e un legittimo riconoscimento del carisma educativo dei genitori nell’ottica di una giusta promozione dei laici».
E con Il Dio cristiano dice di rivolgersi «ai laici cristiani che rimangono in larga misura clericalizzati e ai laici non praticanti e non credenti i quali più facilmente si avvicinerebbero alla fede se conoscessero il Dio cristiano». Quindi questo piccolo libro, che è il suo testamento spirituale, il Vescovo Carlo lo ha scritto in chiave di purificazione della fede dagli impacci e dalle incrostazioni del clericalismo.
Carlo Ferrari, Vescovo del disimpegno dai troppi e discutibili impegni con i quali Vescovi e preti appesantiscono le loro giornate con il rischio che proprio i compiti indelegabili del loro ministero ne risultino sommersi, indeboliti o marginalizzati.
Ci si può chiedere certo se questa denuncia insistita del clericalismo e il sincero riconoscimento delle realtà laicali nella Chiesa bastassero a quella promozione dei laici, da tante parti invocata e ancora oggi, a Mantova come altrove, stentata, incerta e poco significativa.
Certo che non poteva bastare. Ma non è che mons . Ferrari si sia fermato a qualche teorico e occasionale riconoscimento. Chi lo ha conosciuto da vicino e comunque sia in grado di ricondurre l’insieme del suo ministero a un principio di sintesi, non ha difficoltà a trovarlo, tale principio, in una equivalenza e reciproca implicazione tra le istanze più vere dell’uomo e la proposta preveniente, gratuita e sempre eccedente della divina Carità, così come si esprime nella storia della salvezza. C’ è alla radice di un po’ tutta la predicazione e I ‘atteggiamento pastorale del Vescovo Carlo la prospettiva di quell’ umanesimo plenario caro a Paolo VI non meno che a Giovanni Paolo II, per il quale nulla di ciò che è umano dev’ essere sacrificato al sacro di Dio o alla presunta sacralità di gerarchie terrene ma tutto può e deve essere orientato alla sua piena valorizzazione in forza dell’al di là dell’umano, I’ordine della Grazia cui è chiamato.
E’ I’umanesimo plenario cristiano, bilanciato su due cardini che appartengono l’uno alla stessa tradizione della fede: I’exibeamus haminem perfectum in Christo jesu Domino nostro, che gli educatori Ferrari e Del Monte (poi Vescovo di Novara) già negli anni del seminario ci insegnavano a tradurre: «Dimostriamo al mondo che I ‘uomo raggiunge la sua perfezione grazie all’amore di Dio in Gesù Cristo»; mentre l’altro cardine appartiene alla più sicura tradizione teologica: «La grazia non surroga né mortifica la natura, ma la porta a perfezione».
Se compresa nella sua ricchezza di significati e di applicazioni, se assunta come principio ispiratore di fondo, tale prospettiva non solo fa posto ai carismi laicali e ne stimola l ‘applicazione più piena e libera da ipoteche di ogni genere, ma va oltre il problema “promozione dei laici”, perché introduce – a mio avviso nel modo migliore- il problema più generale e fondamentale della laicità della Chiesa in tutte le sue componenti e in tutte le sue espressioni.
Laico cioè cristiano, cristiano cioè laico come qualcuno propone oggi, con un’equivalenza conquistata con fatica ma soprattutto donata dalla divina Carità che l’ha prefigurata nel suo disegno.
Non é un caso che a Mantova la settimana pastorale su “Evangelizzazione e promozione umana” che tendeva a far coincidere almeno implicitamente i due termini, si sia tenuta con un anno di anticipo sul convegno ecclesiale di Roma dedicato a quel tema. E’ il segno di una sensibilità che mons. Ferrari possedeva vivissima.
Per concludere, cedo ancora la parola a lui, testimone in prima persona: «Una esperienza che influì in misura incalcolabile fu la mia partecipazione al Concilio Vaticano Secondo. Vissi all’interno questo evento straordinario della vita della Chiesa; ascoltai le voci delle più eminenti personalità ecclesiastiche di tutti i continenti; partecipai alla dinamica che segnò un approfondimento del pensiero rivelato che poi maturò nei vari Documenti. Un fatto notevole fu la partecipazione alla più alta liturgia che sia mai stata celebrata: mi è rimasto impresso il Sanctus cantato da tutti i Vescovi del mondo, unito a quello che cantano le schiere celesti. La mia personalità è maturata in modo imprevedibile e si è arricchita mirabilmente: una forza nuova e incontenibile mi ha spinto ad essere evangelizzatore del Messaggio del Concilio. Un’esperienza che è durata circa vent’anni ha costituito il mio più lungo impegno pastorale» (11 Dio cristiano pag 13).
Testo di una conversazione tenuta recentemente
agli studenti di teologia del Seminario diocesano